Doppia recensione: “Tony Pagoda e i suoi amici” di Paolo Sorrentino, “La vendetta” di Agota Kristof
I libri si accumulano e il tempo per le recensioni si restringe, quindi ho deciso oggi di mettere insieme due libri che non hanno in comune praticamente nulla, a parte il fatto che sono entrambi una raccolta di storie (non solo di racconti, soprattutto nel caso di Sorrentino). E’ un’accoppiata quantomeno curiosa, ma in fondo si possono anche abbinare, se volete cominciare con qualcosa di più leggero prima di appesantirvi definitivamente.
Il libro di Paolo Sorrentino, “Tony Pagoda e i suoi amici” (Feltrinelli), è infatti una lettura veloce, da tre fermate dell’autobus, da 10 minuti da ammazzare prima di cena. Non per sminuire il libro in sé, che è stato anche una sorpresa. Abituato al passo cinematografico di Sorrentino (che trovo spesso interessante, ma non sempre di mio gusto), sono stato piacevolmente preso dalle storie di questo libro –che sa essere molto divertente (leggere la storia dell’onorevole in Corea, per credere), così come può dar vita a riflessioni amare sull’esistenza, la vecchiaia, l’amicizia, che sembrano richiamare a volte le lunghe scene de “La Grande Bellezza”.
Il libro si divide in (pseudo)interviste a personaggi più o meno famosi, come Carmen Russo e il marito Enzo Paolo, un’affettuosa presa in giro del meglio e del peggio del nazionalpopolare; e poi le riflessioni di Tony Pagoda (che non potrete non leggere con la voce di Servillo, fidatevi), dove il tono si fa più serio, quasi lirico, e sicuramente costituiscono la parte migliore di un libro che si legge velocemente, e potrà intrattenervi quanto basta.
Diametralmente opposto è il registro di “La vendetta” (Einaudi), raccolta di racconti di Agota Kristof. Avevo amato parecchio il suo “Trilogia della città di K.” (finale escluso), ed ero curioso di vedere come se la cavava nel racconto. Le storie sono brevi, a volte brevissime come piccoli abbozzi, schizzi improvvisi, lampi improvvisi che lasciano subito lo spazio alle tenebre che si richiudono su di noi, una volta arrivati all’ultima frase. Più che minimale, una scrittura minima, che non lascia niente al caso, alla descrizione psicologica, agli aggettivi ridondanti (un po’ come asserivano di voler scrivere i due gemelli della prima parte della “Trilogia”). A prescindere dalla lunghezza, le storie della Kristof spiazzano, catturano in poche righe (cosa non semplice), e lasciano sempre qualche strascico una volta arrivati in fondo. Più di tutto, riescono a ricreare quell’atmosfera gotica, disperata, che permeava già la “Trilogia”. In un mondo senza nomi, senza connotazioni geografiche precise, senza tempo, sembra di attraversare, uno dietro l’altro, degli incubi che sul momento non sappiamo (o non vogliamo) interpretare, ma che lasciano una striscia di inquietudine dietro di essi.
Una raccolta che, anche questa, può essere letta in un’unica seduta, preferibilmente al lume di una lampada mentre fuori è notte. Fortemente consigliato ai fan della “Trilogia”.
Di Agota Kristof ho già recensito:
-“Trilogia della città di K.”
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