Tempo perso
(La versione originale di questo post è stata pubblicata su Hotel Morgana il 3 luglio 2014. Durante i Mondiali, of course).
I Mondiali di calcio non sono mai un evento neutro, anche per coloro (mi verrebbe da dire: soprattutto per coloro) a cui non frega niente del calcio.
Avevo pronti un paio di pensierini sulla polarizzazione del pensiero durante questo evento (roba da farmi denunciare da centinaia di sociologi), su come ventidue tizi che rincorrono una palla riescano a tirare fuori il bello e il brutto (a volte insospettato) da ognuno. Su come venga fuori quella cosa per niente scontata che è il senso di appartenenza ad un Paese.
Ma poi, dopo la disfatta degli azzurri contro l’Uruguay, mentre discutevo col compare su quante ore di sonno potevamo fare prima di andare al lavoro (non molte, considerando che la partita è finita dopo le 4 di notte), ho realizzato che per i prossimi Mondiali bisognerà aspettare fino al 2018, in Russia.
E subito dopo ho realizzato un’altra cosa: ai prossimi Mondiali avrò 38 anni, anzi ne starò per fare 39.
L’unico mio commento è stato: oh, cazzo.
39 anni. Quasi 40.
Io non so che rapporto col tempo abbiate voi. Immagino che nessuno (o quasi) sia contento di invecchiare. Io rientro in quel “quasi”. Cioè, non è che ne sia contento, ma lo stesso non ne faccio una tragedia. Ho sempre detto che per me i 30 sono stati miliardi di volte meglio dei 20 – e nei miei trenta ho rischiato di morire, il che la dice lunga sui miei vent’anni. L’energia non mi è diminuita nel tempo, anzi, l’esatto opposto. Il tempo, quello è un’altra storia.
Odio il tempo. Lo odio perchè non lo capisco. Sarebbe più giusto dire: perchè non voglio capirlo. Non ho mai ragionato in termini di mesi, anni o chissà che altro. Io sono sempre stato per il “giorno dopo giorno”, un po’ come il motto degli Alcolisti Anonimi, “un giorno alla volta”. Perchè, forse, nella vita ne ho prese un bel po’, e mentre le stai prendendo non ti viene molto da progettare a lungo termine. Quando il dolore ti assale, vuoi solo che passi velocemente. Innesti il pilota automatico, ti copri e aspetti che il momento peggiore della tempesta passi.
E quella tempesta sembra non passare mai.
Così mi sono infilato in qualunque piega del tempo che avessi potuto scorgere, e alcune me le sono anche inventate. Mi piaceva la sospensione, la pausa, il lasciatemi qui e andate avanti voi. Tutti gli appuntamenti che avevo mi suonavano spiacevoli se non fatali, e li rimandavo con estrema facilità. Non me ne importava niente delle tappe fondamentali, me ne sbattevo dell’orologio biologico: che il mondo facesse quel che doveva, a me bastava la mia grotta, la mia donna, la mia tribù e poco altro. Il passare degli anni non mi diceva niente, la modernità era un concetto molto relativo. La maggior parte dei libri che leggevo erano ambientati in epoche passate, e lì mi ci trovavo bene. Ero in ritardo su tutto. Il 2007, per me, è come se fosse successo avantieri. 2007? Già il 2000 è una data recente, e mi ostino a non voler credere che siano passati già 14 anni.
Con queste premesse, si può dire che ero spacciato. Demodè per vocazione, pronto ad essere fatto fuori dal rullo compressore del tempo.
Eppure, proprio quello che doveva tagliarmi fuori e costringermi all’isolamento e alla morte per inedia, alla fine mi ha salvato. Se sono riuscito a passare quello che sono riuscito a passare, lo scorso anno, è stato anche grazie a questa mia attitudine del “giorno dopo giorno”. Mentre la tempesta infuriava (come mai aveva fatto prima), mi sono messo giù ed ho aspettato.
Ho saputo aspettare, e sono stato ricompensato per questo.
Solo adesso mi rendo conto che se avessi guardato troppo in là in quei momenti, sia in avanti che indietro, avrei dato di testa. Non che le tempeste passino senza far danni, ma almeno sono riuscito ad andare avanti, testa bassa muscoli tesi e gambe che pompavano. Un passo alla volta. Un metro alla volta.
Finchè alla fine.
Adesso che la tempesta è passata, è ricominciata questa lotta col quel nemico infinito e invisibile. Certi giorni è un’ansia sottopelle, di quelle senza ragioni apparenti, e altri giorni è una nuvola che ti schiaccia al terreno e ti ricorda che sei mortale più di quanto tu vorresti sapere.
La tempesta non passa lasciandoti indenne, e sicuramente la mia tendenza a nascondermi ancor di più nelle pieghe del tempo, a lasciar passare le ore e i giorni senza una meta, con solo una comoda sopravvivenza come triviale obiettivo, può trovare qualche spiegazione abbastanza evidente.
Ma non sono solo io, o quel che mi è successo. Proprio poco fa un amico mi ha mandato un messaggio spiegandomi perchè non mi scrive più spesso: “Io lavoro. E trombo. E mangio. E dormo. Fine della mia esistenza”.
So che per lui è così, so che per moltissimi è così. Se sei così fortunato da essere impegnato, non hai più alcun diritto di reclamare qualche ora anche per te. Sarebbe chiedere troppo, quello. Tiriamo tutti avanti, giorno dopo giorno, un giorno alla volta, un centimetro alla volta, sperando di arrivare tutti d’un pezzo fino alla sera, e poi da lì al mattino, e poi ricominciare tutto in loop narcotizzante.
É questa la vita adulta? Allora mi sa che non mi hanno spiegato bene le cose, all’inizio. Più della fatica, più dei capi stronzi, più della futilità di quello che facevo, è sempre stato questo quello che più mi ha fatto girare le palle nei miei 50 lavori: lo spreco continuo, inesorabile, di tempo. Peggio: del MIO tempo. Ne sono sempre stato gelosissimo, volevo essere l’unico che poteva sprecarlo. Pensateci bene: cos’altro vi appartiene di più, davvero, del vostro tempo?
E così eccomi anch’io intrappolato, eccomi a programmare ritorni e viaggi, sempre se le ferie bastano e le palle reggono. Eccomi ad andare avanti senza pensare, e ogni tanto alzare la testa e pensare, wow, è già inverno, siamo a metà anno, ma com’è possibile?, e poi tornare giù a fare la stessa cosa finchè alzi la testa ed un altro anno è andato. Dove? Come? Domande che preferisci non farti.
Per fortuna, non hai più il tempo di fartele.
Cosa c’entra tutto questo pippone con la storia dei Mondiali e della Russia? Non molto, a parte il fatto che rendermene conto è stato come uno di quei momenti di “sveglia”, dove alzi un attimo la testa dalla nuvola grigia dove la tieni immersa tutto il tempo, e realizzi dove sei e QUANDO sei (voi direte: e tu che hai rischiato la vita, avevi bisogno di una partita di calcio per rendertene conto? La mente, specie se pigra, a volte prende strani sentieri…).
Insomma, ho capito che tra 4 anni sarò un quasi-quarantenne (di nuovo: oh cazzo), e ad un pensiero del genere non posso farla passare liscia. Sono pigro, ho ancora la tendenza al pilota automatico: tutte cose verissime. Ma non posso lasciare che questi 4 anni passino così, senza rumore. Lo devo a me, lo devo ai miei sogni, lo devo anche a Gianka che ogni anno mi sopporta fino alle 4 di notte in macchina mentre discuto di quello che dovrei fare nei mesi successivi, e poi l’anno dopo sono sempre lì a ripetere le stesse cose.
Non ci vuole molto: solo disattivare il pilota automatico di tanto in tanto, aprire gli occhi, vedere che ore sono, che giorno è, prendere le distanze al mondo e le proporzioni al tempo. Provare a sfotticchiarlo qui e lì, prima che mi fotta lui del tutto e definitivamente.
Provare a immaginare come sarò tra 4 anni, se davvero sarò come dicono loro, se sarò come spero io, in che altri guai del cazzo mi caccerò nel frattempo, di cosa riderò e da cosa fuggirò.
E pensarlo senza paura, ma con una voglia di avventura.
Una quasi-curiosità, a voler esagerare.
Cosa c’entrano i Mondiali in Russia con tutto questo? Assolutamente nulla. Non sono un obiettivo vitale o altro. Ma se riuscirò a farlo, vorrà dire che sarò ancora vivo, 40 anni o meno.
E non è male ricordarselo, ogni tanto.
Ci vediamo tra 4 anni, fanciulli. Preparate vodke e mappe.
E voi cominciate ad allenarvi come si deve, per dio.
До скорого!
Marco Zangari © 2014
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari
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