23 e 50 (racconto)
La mezzanotte si avvicinava. Fosse stato Capodanno, avrei fatto come sempre –cioè chiuso in bagno ad evitare le labbra baffute di zie che non avevo mai visto in tutta la mia vita, e i volti rugosi decrepiti cadenti di vecchi zii che avevano lasciato la loro vita in qualche piega di quella loro pelle squamosa. Ma adesso era diverso.
Per ingannare l’attesa, ne ordinai un’altra. Non c’era molto altro da fare, in quel bar per morti. Qualche vecchia scorreggia al tavolo, due o tre ragazzi che entravano e restavano lì un attimo incerti prima di ributtarsi nella notte estiva. Per il resto c’eravamo solo io, Vincenzo e il barista –anche lui sonnecchiante e apatico, che andava e usciva dal retrobottega giusto per controbattere i colpi di sonno e arrivare fino alla fine della serata. Affari d’oro per lui, come sempre. Mi chiedevo come ancora non avesse chiuso quel cesso di posto. Eppure a noi piaceva. Ci dava un posto dove stare. Ci trovavamo bene, tra i panini lerci e le bottiglie circondate da pallidi aloni di ragnatele.
Nel frattempo fuori c’era una vivace discussione tra un paio di subnormali. Quello più grosso, simile a un bubbone troppo cresciuto, stava urlando all’altro, un ciccione col corpo a forma d’anfora e una calvizie che non dava scampo per il futuro.
«Te lo chiedo un’altra volta, con gentilezza» e intanto gli metteva le mani in faccia. «Dove cazzo è il mio specchietto?»
Indicava la sua moto, un modello vecchio ma tenuto bene. Il problema era come facesse a reggerlo.
«Non lo so» diceva il ciccione, spaventato, con nello sguardo il desiderio ardente di trovarsi da qualsiasi altra parte ma non lì. Alla sua paura si univa una certa dose di fastidio, come se quello fosse l’ennesimo inconveniente di una serata inutile. Tutto quello che voleva era il suo letto e una notte lunga 15 ore. Il subnormale lo incalzava.
«Ti giuro che se non esce fuori il mio specchietto entro 10 secondi, qui finisce male»
«Ma ti ho già detto che NON LO SO DOV’E’!»
«Uno…due…tre…»
Sapevo dov’era il suo specchietto. Dei ragazzini l’avevano staccato prima, mentre andavo in macchina a prendere le sigarette, e l’avevano gettato in un giardino lì vicino. Una stronzata, ma li capivo. In qualche modo bisognava pur passare la serata.
«…quattro…cinque…»
Certo, potevo dire dov’era lo specchietto e finirla lì con quella scenetta squallida. Ma rischiavo d’andarci di mezzo pure io –il subnormale mi era avanti di un discreto numero di birre- e inoltre così era anche più divertente.
Senza aspettare il dieci –forse perché non sapeva arrivarci- il subnormale scattò di colpo e diede un ceffone a mano aperta al ciccione. Lui si risentì, cominciò ad urlargli dietro –tutte cose che non fecero altro che eccitare ancora di più il sub. Lo investì con una serie di pugni, forti e veloci. L’alcol in corpo lo rendeva scoordinato, ma sapeva come piazzare un cazzotto come si deve.
«Ahh! Ahi! Basta! BASTA!» urlava il ciccione, senza nemmeno provare a reagire. S’era creata una folla intorno a loro –nei posti dove non c’è niente da fare, cose del genere sono meglio della venuta di Babbo Natale. Tutti incitavano il subnormale a dargliene ancora. Vidi per un attimo la faccia del ciccione macchiata di sangue, e mi diede il voltastomaco. Sono una persona sensibile, io.
Il sub piazzò un altro pugno della pancia del ciccione. Sembrò quasi rimbombare in mezzo al casino.
«AUGUUURI!» fece Vincenzo, con un sorriso tirato, porgendomi una birra.
«Già ci siamo?» dissi.
«Guarda tu»
Indicò l’orologio sopra la macchina del caffè del tugurio. Mezzanotte. Eccomi lì. Avevo ufficialmente 23 anni. Che bellezza. Mi sedetti al bancone. Non avevo più voglia di vedere quel ciccione che le prendeva. Tanto, era sempre la solita storia. Bevvi la mia birra mezza calda, guardandomi intorno. D’un tratto, cominciarono a disgustarmi quelle pareti spoglie, quelle cicche per terra, quegli espositori opachi della sporcizia di mesi ed anni. Capii che quella sera non m’andava di starmene in quel bar.
«Andiamo sulla spiaggia?» dissi a Vincenzo.
«Va bene»
Pagammo, salutammo il barista che ci rispose con una specie di raschio, poi andammo. Cercammo di evitare la rissa –che comunque stava per finire, a giudicare dai rumori- e mi chiesi cosa ne sarebbe rimasto del ciccione. Ma anche questo, era poco importante.
Restammo lì, sulla spiaggia buia, a bere.
«E così hai ventitrè anni» fece Vincenzo.
«Non c’è bisogno che me lo ricordi ogni tre secondi.»
Sorseggiamo ancora le nostre birre in silenzio. Molte nostre notti finivano così. Avevamo imparato ad apprezzarle –o meglio, a farcele bastare, nella totale mancanza di tutto il resto. Ma quella sera era diverso. Non perché me ne fregasse qualcosa del mio compleanno, sia chiaro. Ma forse il compleanno, come il sabato sera e le feste comandate, è qualcosa di cui non puoi dimenticarti mai del tutto, perché c’è sempre qualcosa o qualcuno a ricordarti che quello è un giorno diverso dagli altri. Di merda, ma pur sempre diverso. Un’erbaccia che proprio non riesci a sradicare dalla tua testa –mai completamente, almeno.
Vincenzo sembrava sentirlo anche lui. Proprio per questo non mi stupì quando mi propose di farci un giro a Milazzo.
«Ok» dissi, e mi alzai.
In macchina Vincenzo mise la radio a un volume più alto del solito. Io mi limitai a guardare fuori dai finestrini. Quando imboccammo l’autostrada, provai quasi un senso di pace. Mi piaceva tutta quella massa d’asfalto che portava da qualche altra parte, magari lontano –molto lontano. Non potei fare a meno –nonostante ripetuti sforzi- di non pensare agli altri compleanni. Foto ingiallite e felici, foto recenti e impalpabili, foto di una finta felicità, foto di una tristezza palesata mi passarono davanti. Era il mio compleanno, e io sapevo di stare morendo un anno di più.
Arrivammo a Milazzo. C’era traffico, nonostante l’ora tarda. Vincenzo cominciò a temere per la mancanza di parcheggi. C’infilammo in una via secondaria, e la percorremmo tutta. Niente. Tagliati fuori. Non ci stupimmo.
Alla fine trovammo posto di fronte a un palazzo di non so quale cazzo di secolo.
«Sperando che non ci prendano una multa…» fece Vincenzo, preoccupato.
Il cartello di fronte alla macchina dava informazioni sul palazzo.
«Ehi, siamo di fronte al PALAZZO SCROTO!» urlai.
«No, veramente c’è scritto…»
«Lo so anch’io quello che c’è scritto, ma…non sembra così?»
«Effettivamente…»
Ci mise un po’, il vecchio Vincenzo, ma alla fine capì. Eravamo parcheggiati di fronte al palazzo Scroto, per il mio ventitreesimo compleanno.
Cominciammo a ridere. Prima io, poi Vincenzo, e le nostre risate si rincorrevano e si davano mazzate nell’abitacolo che sapeva d’abbandono. Ridemmo, ridemmo, ridemmo a lungo. Sembravamo due deficienti. Forse lo eravamo davvero.
Alla fine le risate morirono così com’erano nate, e noi uscimmo nell’aria afosa di luglio.
C’incamminammo verso il lungomare. Lì si radunava sempre un sacco di gente, ragazzi e ragazze, nelle sere d’estate. Noi lo evitavamo. A noi, ormai, bastava il bar tugurio molto lontano da lì.
«Ho ventitrè anni» dissi a Vincenzo.
«L’età è quella che uno si sente dentro» disse lui.
«Allora mi correggo: ho cinquant’anni»
«Rallegrati. La pensione è vicina.»
La passeggiata però era stranamente vuota, quella sera. Sentimmo della musica, in lontananza. La seguimmo come automi, senza parlare. La luna era alta sulla raffineria, e illuminava tetramente tutta la costa. I locali strabordavano di gente che aveva scelto modi più costosi e socialmente accettabili dei miei per far morire le loro serate. Camminavo senza chiedermi il perché. Era un buon trucchetto, finchè reggeva.
Andavamo avanti così, con la gambe ovattate, con la testa al di sopra delle palme piene di smog. L’acqua ci s’infrangeva dentro il cranio. Angeli inciampavano sulla linea dell’orizzonte.
Ci arrivò lontana, come in un sogno da ubriacata pesante, la voce di qualcuno al microfono.
«…RE E SIGNORI! LA SERATA È QUASI GIUNTA ALLA FINE E IL VINCITORE –ANZI, I VINCITORI- SONO GIÀ PRONTI! VI RINGRAZIO PER AVERCI SEGUITO COSÌ NUMEROSI QUESTA SERA, RINGRAZIO TUTTI QUELLI CHE HANNO RESO POSSIBILE QUESTA MANIFESTAZIONE, E SPERO DI POTERVI RIVEDERE IL PROSSIMO ANNO! ECCO A VOI I “CAMMELLI ASSETATI”!»
Il gruppo uscì. Qualche tiepido applauso del pubblico, composto per la maggior parte da cinquantenni insonni e trentenni calvi e con il maglioncino legato al collo. Desiderai qualcosa da bere.
«…andiamo via da questa spiaggia –da questo mare –bom bom bom bom bom…»
La canzone dei Cammelli, in fondo, era divertente, e il grassone al basso sembrava spassarsela un mondo. Uno di quelli nati col sorriso. Uno di quelli che sembra non debba piangere mai, nemmeno per un’estate storta, nemmeno per un compleanno con niente da festeggiare. Eppure anche lui piangeva, nella sua stanza, col cuscino ad accogliere le lacrime e zero voglia. Almeno, così la vedevo io. E dire che un tempo i compleanni mi mettevano sempre di buonumore.
Io e Vincenzo ascoltammo tutto in silenzio, con le nostre facce stanche e le nostre braccia cadenti. Ci trovavamo nello strano sogno di qualcun altro, con le note e le parole leggere che rimbalzavano sotto quel cielo vasto e senza uscita. Sembrava facile, lì, e per un attimo mi uscì un suono che somigliava a una risata da museo delle cere. Ne restai disgustato. I Cammelli finirono la loro performance, fecero ridere il pubblico nelle presentazioni, poi ci trovammo tutti a fissare un palco vuoto. La gente andò via. Restammo io e Vincenzo.
«Simpatici, no?» disse.
«Certo» dissi io.
Tornammo verso la macchina. Non avevamo più niente da fare, là. Eravamo arrivati tardi.
«Facciamo il giro delle puttane?» disse Vincenzo, una volta arrivati in macchina.
«Lo faccio già da 23 anni» dissi io.
Ci allontanammo da Palazzo Scroto –non senza riderne fintamente un altro po’- poi tornammo al nostro paesino senza tempo. Una volta lì, mi sentii subito a casa. Vincenzo corse dentro il bar per un’altra birra. Anch’io ne avevo bisogno, ma vidi qualcosa che mi fermò lì in mezzo alla strada deserta. Il ciccione di prima era seduto su un muretto del lungomare. Aveva dei grossi lividi in faccia, e del sangue raggrumato sul labbro. Se ne stava lì, solo e triste. Mi sedetti accanto a lui.
«Vuoi?» dissi porgendogli il pacco di sigarette.
«Non fumo, grazie» disse lui, trattenendo i singhiozzi.
Non dissi altro, e lui continuò a fissare per terra. Si toccava le ferite, ogni tanto. Io mi accesi una sigaretta. Tutti quei lividi. Non eravamo riusciti a opporci, e le cose erano andate nel solito modo. Fumai mentre pensavo alla birra che mi aspettava e guardavo il mare nero in lontananza. Il ciccione piangeva in silenzio. Dimenticai che era il mio compleanno. Spensi la cicca, ed entrai nel bar.
Marco Zangari © 2004
www.marcozangari.it
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