Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare: in partenza per l’Australia
(Questo post è stato scritto originariamente nel settembre del 2007, alla vigilia della mia prima partenza per l’Australia, e pubblicata sul blog/community Hotel Morgana. Da quel viaggio sarebbero poi nate le esperienze alla base del romanzo “Latinoaustraliana” (Nativi Digitali Edizioni, 2015))
“Che cos’è quella sensazione quando ci si allontana dalle persone e loro restano indietro sulla pianura finchè le si vede appena come macchioline che si disperdono?… E’ il mondo troppo vasto che ci sovrasta, ed è l’addio. Ma noi puntiamo avanti verso la prossima pazzesca avventura sotto i cieli”
Jack Kerouac
Faceva molto caldo sulla nave, affollata di bambini e turisti della domenica e vecchi soli con la pancia di birra. Da lì a poco però sarebbe piovuto. Poi, di nuovo il sole. Niente di tutto questo poteva stupirmi, nella mia prima tappa vera verso l’Australia, la mitica Oz. Nemmeno il nome della nave mi ha sorpreso più di tanto. Il destino s’era messo in moto di buon’ora quel giorno, e in ogni cosa si vedeva che stava facendo il suo sporco lavoro.
E così alla fine avevo lasciato il mio vecchio Rifugio per andare a dare un’occhiata al mondo. Ancora non mi sembrava vero. Non mi sembrava vero neanche prima della partenza, perché come puoi immaginare di stare per attraversare un paio di oceani e continenti quando il panorama che vedi dalla tua finestra è lo stesso di quando eri alto un metro e un cazzo? Anche se avevo il biglietto in mano –biglietto quanto mai sudato, lasciatevelo dire- era tutto impalpabile. Irreale. Capita sempre così, quando realizzi un sogno.
Credevo che avrei fatto più cose, prima di partire. Credevo che avrei pensato di più. Ricordato.
Invece niente. Forse la mia mente era già in viaggio o forse, come credo, sapevo nel profondo, lì nelle budella, che era ormai tempo di andare. Quando finisce il primo tempo di un film non puoi stare troppo a pensarci su, o non capirai niente di quello che succede dopo. No. A quel punto devi puntare dritto al secondo tempo, preparato e libero di goderti tutto quello che può capitare, che sia o meno in sintonia col già visto.
Io e il mio Rifugio siamo stati amici, poi ci siamo odiati di brutto, e alla fine abbiamo provato a portare avanti una convivenza più o meno civile. Abbiamo cercato di fare la pace senza mai riuscirci del tutto. Anche ieri, prima di partire, mi sono affacciato per l’ultima volta al balcone e ho fissato un po’ la massa blu dietro tetti e case ammuffite, indeciso tra mandare un bacio e alzare il dito medio.
Alla fine ho optato per un sorriso.
Ho cercato di non guardarmi indietro, di non cadere nella trappola della nostalgia che colora il grigio e cancella la merda. Sono sempre stato uno in lotta coi propri ricordi. Da una parte sono d’accordo con chi dice che chi si lega ai ricordi non può andare lontano, d’altra parte senza quelli perdi semplicemente la tua identità. Per quanto schifosi siano, sono stati loro a mettere su il tizio che vedi ogni giorno allo specchio.
I ricordi sono come quegli anziani saggi che non la smettono più di parlare: devi ascoltarli rispettosamente, ma non troppo.
Sulla nave Morgana non ero solo. Un amico mi ha voluto accompagnare fino a Villa San Giovanni, da dove avrei preso il treno per Roma –prima e unica fermata nella strada verso l’Australia. Abituato a partire da solo, mi ha fatto effetto. Sono sempre stato un drammatico e gli addii, anche per pochi mesi, mi hanno sempre lasciato una malinconia da settembre piovoso ed estate finita. E stavolta non si trattava nemmeno di pochi mesi.
Lasciatevi dire che gli addii sono la parte più brutta di ogni viaggio. Banalità sacrosanta. Non importa quanto tu abbia desiderato quel viaggio, quanto sia vitale per te, e nemmeno se i rapporti che avevi con le persone che lasci non sono sempre stati idilliaci. No. Quando la nave molla gli ormeggi, quando il treno comincia a muoversi, quando l’aereo prende la rincorsa, tutto quello che vedi sono persone che si fanno sempre più piccole fino a scomparire. Anche questa è una trappola, come la nostalgia, e non puoi evitarla. Proprio per questo le stazioni sono tra i posti più vivi e tristi al mondo.
Tutto quello che dovete fare, a quel punto, è prendere un grande respiro e guardare sempre fisso davanti a voi. Non lasciatevi fermare dai saluti, dalle facce, da quello che è stato. Farà male, molto. Per rinascere infatti bisogna sempre morire un po’, prima. È atroce, è inevitabile.
E in fondo è anche un bene che ci sia, questo dolore.
Indica che l’organo è sano e pulsante, che c’è rimasta ancora della vita, nei ricordi e nelle speranze.
A meno che il viaggio che state per fare non è uno a cui siate state costretti da ragioni materiali o di vita e di morte, ci sarà sempre il momento in cui penserete –ma perché tutto questo?
La domanda è umana, ma dovrete allora avere il coraggio la forza l’incoscienza di darvi una risposta altrettanto umana: perché sì.
Troppo semplice? No, per niente. Perché dirselo vuol dire non farsi prendere. Non fatevi ingannare da questo dolore, dal fatto che il vostro corpo si faccia all’improvviso così pesante. Lui vuole restare lì, è ovvio. Lì c’è nato e cresciuto, lì ha le sue abitudini e i suoi punti di riferimento. Quello che c’è dentro il corpo però non ne ha, di punti di riferimento. Non ha nazionalità, non gli servono documenti, non assomiglia a nessuno. Quello che c’è dentro vuole vedere quello che c’è fuori, oltre quei palazzi e quelle strade che ormai conoscete a memoria.
Tenete a mente questo: la vita va avanti. Non nel senso dell’andare oltre le tragedie, ma proprio nel significato letterale della frase. La vita va avanti. La vita si muove in avanti. Il corpo può restare fermo quanto vuole, ma la forza che lo anima spinge e spingerà sempre in avanti. La vita si muove fisicamente in avanti, e nemmeno il corpo può fare troppo finta di niente, perché i capelli che cadono, le tette che scendono, tutto vi ricorda che anche se voi vi ostinate a restare fermi in cerca di una sicurezza che in realtà non arriva mai, la vostra vita si sta muovendo, come un cavallo imbizzarrito che ogni tanto va lasciato correre a perdifiato.
Non credo sia possibile restare fermi. C’è un’eternità intera per farlo, una volta schiattati per bene. Nel frattempo credo che la vita debba seguire le rotte delle strade e dei binari, e perdersi in quelle scie bianche lasciate dagli aerei in cielo.
Detto tutto questo, non è lo stesso facile salutarsi, dirsi addio. Non va mai come nei film. Non ci sono frasi storiche da dire, sguardi che restano impressi, gesti da ricordare. Nella realtà c’è impaccio, imbarazzo e molta, molta tristezza che segna gli occhi e fa tremare la voce. Momenti in cui pensi che i marinai sono gli ultimi veri santi.
Avrei voluto dire molto di più, esprimere molto di più a tutti, ma la nave Morgana accendeva i motori e non c’era più tempo. Presi le mie valigie e salii sul treno, alla fine, chiedendomi se è stato lo stesso Dio a creare il mondo e le distanze.
Sollevai un’ultima volta la mano mentre fuori settembre era in ogni goccia di pioggia che finisce per rigare il finestrino. Mi misi comodo pensando solo di sfuggita alle ore di treno. In realtà stavo pensando che il viaggio era appena cominciato.
Alzai gli occhi, guardai le mie valigie. Adesso erano piene.
Finalmente in movimento.
Era ora.
Marco Zangari © 2007
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sergio
Posted at 08:25h, 24 settembresi puo’ scappare quando si vuole ma le radici sono sempre ancorate da un’altra parte