A fari accesi nella notte e non vedere comunque un cazzo
Anni e anni fa, mi capitava questa cosa. Succedeva dopo una serata fuori con gli amici. A quel tempo vivevo nella casa al mare, nel mio paesino Bucodiculo.
Insomma, arrivavo davanti casa che erano già le due o le tre di notte, mettevo la freccia per girare, poi all’ultimo momento ci ripensavo e tiravo dritto. Non so perchè lo facevo. Ricordavo nitidamente di essermi messo in macchina stanco, assonnato. Mentre tiravo dritto, però, la stanchezza era scomparsa. Sapevo anzi che, se fossi andato a letto in quel momento, non avrei mai preso sonno.
Dovevo andare, sentivo solo questo.
Così cominciavo a girare per la statale costeggiando il mare, i paesini addormentati, le colline buie. Mi sentivo come se la mia serata stesse cominciando solo in quel momento. Perchè mi ero sentito stanco?
Capivo che era la gente con cui ero uscito. Mi avevano tolto le energie, e adesso piano piano quelle venivano fuori. Eppure da fuori sembrava che ci fossimo divertiti, che avessimo riso tanto. Mi toccavo le guance ancora un po’ indolenzite, e realizzavo che non riuscivo a ricordare nemmeno una delle cose per cui avevamo riso insieme.
Alzavo la radio, abbassavo il finestrino. A volte ascoltavo qualcosa di intimo, che ci stesse bene con quella Notte lì. A volte andavo giù di rock e lo urlavo alle colline buie, ai lampioni, alle case addormentate. Era il mio modo per svegliare quel mondo in coma. Per buttare via quello che restava di una serata in cui ero solo uscito da me stesso.
A volte non ascoltavo niente. Mi capitava soprattutto quando mi fermavo davanti al mare. Mi piaceva il rumore delle onde. Sembrava potesse lavarmi via dalla mente quelle parole inutili, quei pensieri opprimenti. Qualche volta mi spingevo a fumare una sigaretta nella spiaggia deserta.
Lo so che fa molto scenografico. Non cercavo di dimostrare niente, in quei miei giri. Non avevo una meta nè uno scopo. Non avevo un brutto pensiero da mandare via –o almeno, non soltanto uno. Non volevo fare la parte dell’eroe romantico, nè di nessun altro. Ero io, e questo mi bastava.
Ero brillo, qualche volta quasi ubriaco in quei miei giri. Lo so cosa pensate. Comunque sì, ci stavo attento. Non correvo mai, rispettavo i segnali e tutte quelle cazzate.
C’era la possibilità che una pattuglia mi fermasse. Era sabato notte, ed era quasi estate. Poteva succedere. Ma non me ne fregava un cazzo. Dovevo andare, e l’alcol mi sembrava quell’azzardo che rendeva tutto solo più interessante.
Anzi, mi piaceva molto sapere che c’era quel rischio. Dava più senso alla cosa. Stavo cercando di salvarmi da quel sonno universale, e per farlo dovevo camminare sul filo, dovevo far rumore, come un santone al contrario. Era la stessa cosa che mi aveva spinto, da piccolo, a provare a saltare dal balcone di casa mia. La stessa che mi aveva quasi fatto annegare mentre facevo immersioni in una grotta senza uscita. Quel piccolo rischio era un modo come un altro di sentirmi ancora vivo in un mondo pieno di morti.
Non c’era poesia in quello che facevo. Non cercavo la Bellezza, anzi semmai la fuggivo. Davvero, non me ne fregava un cazzo. Qualche volta sentivo che avrei potuto andare e andare finchè non avessi prosciugato il serbatoio, e a quel punto sarei andato avanti in qualche altro modo. Ma avanti, cazzo, sempre avanti.
Non cercavo niente, non avevo una donna da ricordare o da dimenticare, non vedevo nulla. La linea bianca in mezzo alla strada era il mio dio. Ero solo, e stavo più che bene così.
Mi sentivo a posto solo mentre andavo. Anche mentre mi fermavo per pisciare sul muro di qualcuna di quelle ville addormentate, lasciavo il motore acceso, pronto a ripartire, a prendere la mia strada, qualsiasi essa fosse. Non m’interessava quello che c’era dietro. Chi se ne fotte. Quelle strade schiumanti gente di giorno, adesso erano solo mie. Le percorrevo con rabbia, con tristezza, con tutto quello che mi passava per la testa. Il mondo aveva senso solo se visto da un finestrino in movimento. Fermarsi era la morte. Peggio ancora della morte.
Poi ho smesso di girare. Non so se sono arrivato da qualche parte. Ad occhio e croce, direi che sto ancora andando, anche se con un ritmo diverso. E’ questo che chiamano invecchiare? Forse il giorno che diventerò come quella gente in coma dei paesini, allora capirò che è finita. Eppure in quei miei giri sentivo che c’era qualcosa. No, niente significati nascosti o cazzate così. Era un giro in macchina, niente di più. Non mi snebbiava la mente. Tornavo ancora più confuso, con più domande, con meno voglia di dormire. Però tornavo, e ancora non ho capito perchè.
Una di quelle volte mi trovavo in uno dei tanti lungomare deserti. Erano le ore prima dell’alba, quei momenti intensi come urla a squarciagola e fragili come un neonato. Stavo fumando una sigaretta seduto in macchina, il finestrino abbassato, pensando a tutto e a niente –soprattutto a niente. In quel momento vidi un gatto camminare per la strada. Ci dividevamo la Notte, io e lui. Non aveva una bella cera. Neanch’io.
Insomma, il gatto fa un salto e atterra sul bordo di un cassonetto. Alla luce arancione del lampione potevo vedergli le ossa, una ad una. Lo vidi annusare il contenuto del cassonetto, con la coda tesa e le orecchie abbassate. Si girò. Ci guardammo per un secondo. Poi fece un salto e sparì dentro il cassonetto. Feci un tiro, gettai la cicca dal finestrino, misi in moto e partii. Quel gatto ora era felice.
Fu l’ultima volta che me ne andai in giro ubriaco dentro la Notte.
Marco Zangari © 2011
(pubblicato su Hotel Morgana il 28/2/2011)
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