“Al culmine della disperazione” – E.M. Cioran

Guardatevi dagli esseri incapaci di vizi, poiche’ non possono che annoiare con la loro insipida presenza. Di che cosa, infatti, potrebbero parlare se non di morale? E chi non ha superato la morale non ha saputo approfondire alcuna esperienza ne’ trasfigurare i suoi crolli. Una grande esistenza inizia la’ dove la morale finisce, perche’ soltanto a partire da quel punto essa puo’ rischiare tutto, tentare tutto.

Ho sempre avuto un debole per la filosofia, pur non capendoci niente. Mi hanno sempre avvicinato quei passi oscuri, complessi, che vanno avanti a lungo scavando pensieri come autopsie dettagliate, inventando un linguaggio nuovo, analizzando ciò che mai avrei pensato si potesse o dovesse analizzare. Mi piaceva quel loro modo di vedere affine ai pazzi, che vedono il mondo in una stanza –e provando in qualche modo a spiegarlo a tutti coloro che si trovano fuori da quella stanza.
Ancora di più, ho avuto un debole per uomini e donne che in quella stanzetta sembrano esserci nati, e credono di doverci morire. Gente rinchiusa in una caverna come quella descritta da Nietzsche, illuminata da una lampada da tavolo magari, e dal loro incessante pensare e ragionare su quello che c’è o ci potrebbe essere fuori –come dei santi che si fanno carico di tutto quello su cui non riflette (o non vuole riflettere) il resto dell’umanità. Più erano perduti e più mi piacevano, questi personaggi simili all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij.
E Cioran, a 22 anni, era indubbiamente un uomo del sottosuolo. Bloccato in una cittadina della Transilvania, imbevuto di letture e vessato da un’insonnia che non gli da’ tregua, Cioran non dimostra per niente la sua giovane età. Sembra anzi essersi spinto avanti, troppo avanti, quasi che avesse vissuto già tutta una vita in quella stanza e fosse pronto per l’inevitabile conclusione. Vaga per la città, va a prostitute e medita il suicidio. Insomma, il giovane Cioran fa la rockstar nel suo paesino rumeno, chiuso in se stesso e senza l’amore di una donna (chissà quanti sistemi filosofici sono stati generati dalla mancanza di una donna).
L’unica cosa che lo tiene su è la scrittura. Notte dopo notte, Cioran annota i suoi pensieri, le sue riflessioni. Scrivere gli permette di capire, di spiegare anche a chi si trova fuori da quella stanza, e soprattutto lo aiuta a non farsi saltare la testa.
Il risultato di quelle notti insonni è questo “Al culmine della disperazione” (Adelphi), che già dal titolo non sembra propriamente una lettura da fare sotto l’ombrellone.
E grazie al cielo per questo, tra l’altro.
Pagina dopo pagina, Cioran riflette sul mondo che lo circonda, sul rapporto tra la vita e la morte, tra gli uomini che sentono di più e quelli che sono felici perché riescono a dimenticare (o sono troppo stupidi per pensare). Torna spesso sul concetto di malattia, descritta come un’opportunità che può sovvertire completamente il normale sentire, aprendo ad intuizioni e riflessioni che l’uomo sempre sano incontra raramente. Si sente tutto il dolore dell’uomo del sottosuolo, la ferita che solo lui riesce a vedere, che rende tutto disperatemente chiaro e insopportabile. Come da titolo, il pensiero di Cioran non è esattamente ottimistico. Nonostante creda nelle grandi passioni, nel lirismo che solleva l’uomo, nel dolore che illumina e fa crescere, sa bene che la vita finisce con la morte, e già questo stesso concetto la svuota in partenza di ogni slancio (chiaramente sto semplificando al limite della denuncia da parte degli eredi di Cioran). Quello che ci ho visto io è quel senso di tutto o niente tipico dell’età in cui Cioran l’ha scritto, quando l’inesperienza e la mancanza di compromessi possono innalzare o far sprofondare con la stessa facilità –ed è una testimonianza preziosa anche per questo (lo stesso Cioran dirà in seguito che “Al culmine” conteneva già tutti i temi che avrebbe poi sviluppato nei decenni successivi). Sembra quasi che, al fianco al pessimismo annichilente, la mano che ha scritto questi appunti volesse credere, al di là di ogni logica e di ogni ragionamento, che possa esserci qualcos’altro.
E pur essendo decisamente lontani da un happy ending, verso la fine Cioran scrive:
La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità questa asserzione, è perché non hanno mai veramente amato. Aver voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco cosa significa salvarsi attraverso l’amore, la sola fonte di speranza.
“Al culmine della disperazione” fornisce interessanti spunti, in una prosa elaborata e interessante, lontana dal tradizionale (e noiosissimo) linguaggio filosofico. Da scoprire.

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