Di nebbie, scadenze, Case Gialle e pezzi di felicità
Quando ti trovi a dover aspettare l’esito, potenzialmente negativo, di qualcosa, cominci inconsciamente ad escludere alcune parole e associazioni dalla tua mente. Almeno, io faccio così. È il mio solito pilota automatico, che entra in funziona non appena si alza la nebbia (una più spessa del solito, in ogni caso) e non si riesce più a distinguere bene quello che c’è davanti. A quel punto, ci sono solo due scelte: o bloccarsi ed aspettare che la nebbia passi, o tirare dritto con quello che si ha, contando, di volta in volta, sull’istinto, sulla forza, sulla rabbia, sull’inerzia, sulla pura e semplice volontà di non farsi bloccare da quella nebbia.
Non è percorso facile, e varia completamente da persona a persona. Ovvio, direte voi. Eppure niente sembra ovvio in quei momenti. Le certezze sono le prime a svignarsela, e questo la dice lunga sulla natura di tali certezze. Puoi contare su di te, certo: ma questo, esattamente, cosa vuol dire?
Vuol dire tirar fuori quello che si ha, senza stare lì a sottilizzare se si tratti di cuore, coglioni, fegato, cervello, culo. Soprattutto, provare a farlo in maniera attiva. In questi casi, non c’è cosa peggiore che sedersi e sentirsi vittime dell’universo.
Soprattutto perchè, in queste situazioni, lo siete davvero.
C’è gente che pensa che io sappia mostrare le palle al momento opportuno, perchè ne ho passata qualcuna e sono riuscito più o meno a riderne. Io invece guardo a chi ha passato roba peggiore, a chi ancora la passa, penso al modo in cui lo fa, e non posso che sentirmi minuscolo. Ci sono dei giganti là fuori, ragazzi. Se avete la fortuna di conoscerne qualcuno, sapete di cosa sto parlando. Storie che non vengono pubblicizzate, di cui non si sa niente, e per cui quella parola tanto sputtanata come “eroe”, a volte sembra anche riduttiva. Portano avanti battaglie che noi abbiamo dimenticato, delegato, messo da parte: quelle per il semplice diritto a vivere.
Anch’io che, come detto, ne ho passata qualcuna, l’ho dimenticato. Una volta passata la nebbia, uno non ci vuole più pensare, giusto? Ormai è andata, tanto. Ce l’hai fatta. Se sarai fortunato, riuscirai a trasportare il peso e la luce di un’esperienza del genere nella vita di tutti i giorni, fino a capire che non esiste affatto, la “vita di tutti i giorni”, ma è solo un’espressione del cazzo che trasuda fine, oblio e rimandare. Esiste solo la vita, bella o brutta, non ci sono cazzi.
Ma posso capire perchè sembri troppa da mandare giù tutta assieme, e perchè molti di noi preferiscano annacquarla, prendendola a piccole dosi, scomponendola in progetti e date e vacanze.
Anch’io ho fatto così.
Uscito dalla nebbia, ho fatto in modo di dimenticarmene (sperando che lei si dimenticasse di me, forse), e mi sono anch’io immerso nella “vita di tutti i giorni”. Ho ripreso ad incazzarmi se quello davanti a me non scattava quando il semaforo diventava verde, a sbuffare se pioveva ed ero uscito senza ombrello, a prendermela se al lavoro le cose giravano in un altro modo.
In fondo, tutto ciò è solo umano. A furia di fissare la vita nella sua interezza, ogni giorno e ogni ora, ci verrebbe il mal di testa più grande del mondo. Solo poche persone probabilmente sono in grado di farlo, e si dividono tra santi, pazzi, poeti, bambini, innamorati, intossicati. Gli altri devono spezzettarla e poi “tagliarla” con altro per poterla inalare o mandare giù. Questo “altro” varia per ognuno –dalla squadra di calcio alla propria perversione sessuale, ai soldi, al cibo, al gioco, alle droghe e così via- ma ognuno ha il suo. Ci rende sopportabile la vita, ci aiuta a concentrarci sull’attimo senza dover costantemente guardare avanti e indietro. Ha senso, perchè ci evita di fondere come calcolatori spremuti a sangue, con troppe informazioni da analizzare tutte insieme.
E allora strepitiamo e ci incazziamo per le stupidaggini, ma a volte riusciamo a godere di cose altrettanto piccole che, per un attimo, ci mandano in vena dei frammenti di eternità.
Un modo per far quadrare i conti.
C’è però un prezzo da pagare.
Dimenticarsi la nebbia, concentrarci sul momento, ci fa dimenticare una cosuccia molto fastidiosa, ma anche abbastanza importante: non siamo qui per sempre.
Le so le facce che state facendo. Però è vero, e lo sapete. Non importa nemmeno la vostra età. Direste che un sessantenne tende a pensarci più di un ventenne, ma questo non è necessariamente vero. Viviamo in un oblìo voluto, auto-indotto, che ci aiuti a tirare avanti senza patemi e senza troppe pressioni.
Prendiamo tempo. Esiste cosa più umana?
Ma rimandiamo, anche, e accampiamo scuse, ci inventiamo ostacoli, esageriamo quelli esistenti, ci paralizziamo in una rassicurante realtà. Anche queste sono cose umane, e in qualche circostanza anche più che giustificabili.
Ma quando le mettiamo accanto a quella verità lì, perdono tutto il loro potere. Quando ci ricordiamo che il tempo a disposizione è limitato, allora quel tempo diventa prezioso, così come prezioso diventa l’uso che ne facciamo.
Per questo la nebbia, che si insinua nella nostra esistenza avvolgendo tutto ciò che ritenevamo importante, ha, in mezzo allo sfacelo che crea, anche una valenza positiva: ci mette a contatto con la nostra limitatezza. Ci ricorda che, seppure viviamo più a lungo e con più coscienza (e autocoscienza) di un albero o di un pesce rosso, finiremo anche noi di esistere come loro –quantomeno in forma fisica. Ci ricorda che possiamo circondarci di tutte le stronzate del mondo, ma questo non fa di noi degli immortali. Ci ricorda che possiamo perderci nelle nostre mille piccole battaglie quotidiane, ma dall’ultima non ne usciremo comunque vivi. Ci ricorda che dobbiamo godercela di più, che dobbiamo vivere di più, ma che forse è anche arrivato il momento di finire quello che si è iniziato.
Da qualche mese ho iniziato, insieme ad altri amici, un progetto che si chiama “Yellow House”. Era un po’ che avevo in mente una cosa del genere, e ovviamente continuavo a rimandare al “momento migliore” (che credo non esista mai, in nessuna situazione). Dopo la mia ultima nebbia, ho deciso di agire. Abbiamo cominciato, tra difficoltà, diffidenza, discorsi a vuoto e incertezze. L’idea di fondo nasceva anche dalla nebbia: siamo circondati da persone che hanno talento, che sono creative, ma per ragioni pratiche o altro, hanno messo da parte quello che gli riesce meglio, aspettando il “momento migliore” (arieccolo). In questa grande Casa virtuale, volevamo essere ognuno uno stimolo per l’altro, uno sprone a fare. Come a volerci ricordare l’un l’altro che il tempo che ci resta può essere poco o tantissimo, e per questo dobbiamo farne buon uso. Senza più rimandare, senza più lasciar perdere.
Abbiamo cominciato, con la “Yellow House”, e non finiremo presto –tempo permettendo.
Volevo mettere nero su bianco queste sensazioni. Sapete perchè?
Perchè domani me ne sarò già scordato. Domani sarò forse tornato anch’io a prendermela se l’autobus è in ritardo o se la batteria del telefono è già scarica. Sarò tornato a “tagliare” la mia vita con tutto quello che mi permetta di annacquarla, e di dimenticarne i limiti.
Domani, forse.
Stasera però lo so benissimo, che il tempo è prezioso. Io voglio usarlo, adesso, per scrivere tutto questo –per voi, ma soprattutto per me- e per alzare la mia birra qui accanto e brindare insieme a voi.
Perchè oggi sono uscito dalla nebbia.
Perchè oggi sono felice.
Perchè oggi sono qui e non altrove. Perchè oggi non ho scuse e non le voglio.
Perchè oggi è il primo giorno.
Domani, si vedrà.
Alla vostra e un po’ anche alla mia,
Zango
Marco Zangari © 2015
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