Il matrimonio di M.
Cara M.
come siamo messi a ricordi? Io bene, nel senso che ne ho tanti, fin troppi, ma ormai ho una sorta di filtro che mi permette di lasciar fuori quelli più dolorosi e lasciar passare tutti gli altri. Ogni tanto me ne perdo anche qualcuno buono, lo so, ma è il prezzo da pagare.
Tra quelli che sono rimasti, c’è quel pomeriggio di 6 anni fa. Avevo appena iniziato il mio nuovo lavoro ed ero stato mandato a fare la mia prima intervista radiofonica ufficiale. Per tutta la strada mi chiedevo cosa avrei avuto mai da dire io in una radio.
Queste cose non fanno per me, pensavo.
L’ironia, ecco un’altra cosa che permette ai ricordi di restare lì dove sono.
Comunque, l’unica cosa che mi confortava andando alla radio era che l’avrei fatta con qualcuno che già conoscevo, e che sapevo mi avrebbe messo a mio agio. Al suo posto, invece, venisti tu a prendermi alla reception.
«Ciao, mi chiamo M. Farai l’intervista con me. E’ un problema?»
Deglutii come succede nei cartoni animati, e da uomo navigato (ma ero in realtà l’ultimo dei pischelli) dissi no no, figurati, andiamo pure.
Così mi ritrovai con davanti un microfono, un mixer pieno di tasti di fronte a me, e la mente assolutamente vuota.
Poi fosti tu a parlare. Una domanda che non ricordo, che aveva a che fare con qualcosa che ti avevo detto distrattamente, mentre percorrevamo con calma i corridoi della radio. Avevi registrato, annotato, e adesso sapevi da dove partire.
Sapevi fare già allora il tuo lavoro, e io, l’ultimo dei pischelli, non potevo esserne più grato.
Mi ha sempre fatto sorridere, il contrasto tra il tuo modo di vivere in un costante turbine di ansia, di movimenti a scatti, di secondi che scorrono e frasi consumate velocemente, e poi invece il modo che hai sempre di mettere a loro agio le persone, che siano dei pischelli da intervistare per la prima volta, o degli amici che stanno passando un periodo in alto mare.
E’ capitato, sia a me che a te. Quando ci siamo conosciuti, le nostre vite erano completamente diverse da quelle di adesso. Eravamo ragazzini senza saperlo, giovani a dispetto di qualunque definizione del Dipartimento di Immigrazione australiano. Venivamo dai due estremi della Penisola, e non fosse stato per l’Australia, non ci saremmo probabilmente mai incontrati.
Una cosa ci univa, all’inizio, una cosa importante: l’amore per quella nostra terraccia lontana e maledetta, amata e desiderata, bestemmiata e cercata. Ci dicevamo che saremmo tornati, magari dopo qualche anno, perchè no in fondo? Le cose devono cambiare, giusto?
Cambierà presto, no?
Come esuli che non si rassegnano, ci dicevamo che potevamo ancora dire la nostra nel nostro Paese. Quel detto sui profeti in patria, no, non faceva per noi.
«Marco, c’è tanto da fare lì» mi dicevi, «vorrei poter far qualcosa». Sembrava di stare parlando di uno Stato in guerra, e forse non eravamo lontani dalla verità. Tutti i nostri discorsi restavano parole, nostalgiche e dolorose, che facevano eco nei ricordi delle nostre famiglie lontane. Quel Paese ci aveva mandato via, senza sporcarsi troppo le mani, senza gesta eclatanti – anzi, con quell’aria pacifica e insopportabile di chi dice, fa’ come ti pare.
Ma noi non abbiamo potuto fare come volevamo.
E forse, in qualche modo, lo abbiamo fatto lo stesso.
Tu lo hai fatto di sicuro. Hai capovolto la situazione nella quale ti trovavi quando ti ho conosciuta, hai inseguito progetti e persone diverse, con poco sonno da parte, le energie a puttane e quell’eco lontana di un Paese lontano che, forse, esisteva solo nei nostri discorsi.
Una volta, per il mio compleanno, mi hai regalato il libro sull’Australia “Lucky Country”. Ed era vero. Non lo sentivamo all’inizio, e abbiamo avuto dubbi a lungo e ancora ne avremo, ma di sicuro l’Australia ci ha fornito una piazza sopra la quale potevamo combattere, e far finalmente sentire la nostra cazzo di voce.
E quella voce, gliel’abbiamo ficcata ovunque, finchè qualcuno non ci è stato a sentire.
Sei anni fa non c’era ancora R., e per questo so il miracolo che ha compiuto nella tua vita e sul tuo sorriso. So come stavi prima, e come ti sei sentita dopo. Ho visto perfino, con mio enorme stupore, alcune delle tue insicurezze cedere, mollare sotto il peso dell’allegria disarmante di R., del suo amore totale e intenso come non eri abituata, di una forza che ti ha permesso di realizzare la strada che avevi fatto fin lì, e di quella che ancora avreste percorso insieme.
Ti ho vista crescere insieme a lui, ti ho vista andare avanti in questo Lucky Country che non fa sconti, che non assomiglia alla Parigi dei nostri sogni universitari, o all’Italia che visitiamo quando possiamo, ma che sa regalare le sue giornate di sole a chi ha polmoni buoni per starci dietro.
Non ci vediamo spesso, perchè le distanze di Sydney sanno farsi sentire e l’età fa il resto (la tua, ovviamente, che io sono ancora un giovincello). A volte possiamo anche non sentirci per qualche tempo, ma so sempre, come lo sai tu, che ci siamo sempre. Io so che quel tuo modo di mettermi a mio agio della prima intervista, non è mai andato via, ed è un dono rarissimo. Un dono che mi è tornato utile tante volte, per motivi un po’ più seri di un’intervista.
Il giorno in cui sono stato ricoverato in ospedale, nel 2013, ricordo nitidamente l’immagine di te che ti fiondi dentro l’ospedale, dopo aver mollato tutto, e che ti dirigi verso i piani superiori, passandoci di fronte senza rendertene conto, di fretta e ansiosa come sempre. Ti ho voluta bene in quel momento, perchè ho saputo, una volta di più, che potevo contare su di te. Ti chiamo sorellina, ma in realtà sei stata più simile ad una mamma, specie in quel periodo, quando venivi a farmi visita ogni giorno, quando mi aiutavi col camice (e io facevo sempre i miei scherzi scemi), quando mi facevi una foto prima di ogni test nella paura di non vedermi più (molto rincuorante, davvero), e quando alla fine, quella fatidica giornata dell’operazione, ci siamo abbracciati, io a ridere, tu in lacrime, sorpresi e felici di essere ancora qui, a danzare su questo imprevedibile, folle Lucky Country.
Il gran momento arriverà tra 5 giorni. Sembrerebbe un’ironia il fatto che lo farai proprio lì in Italia, in quel Paese che che ha detto più volte di saper fare senza di noi, ma io credo che abbia un senso. Perchè venendo qui, nel Lucky Country, abbiamo capito una volta per tutte che possiamo e dobbiamo fare tutto quello che ci va di fare. Che il cuore non conosce distanze e confini. Che l’amore per un luogo non dev’essere per forza corrisposto, perchè in quel luogo ci saranno degli affetti che ci ricorderanno sempre chi siamo e cosa stiamo a fare qui, in questo Lucky Country che certi giorni non sembra così Lucky, e altri invece lo è alla grande.
Mi spiace solo che non potrò essere dei vostri, a ubriacarmi al vostro open bar (finalmente ce l’hai fatta?), a cantare i grandi successi italiani anni ’90 a notte fonda con in corpo più grappa che sangue, ad abbracciare te e R. e dirvi, in un sospiro alcolico, che pensare alla vostra coppia mi aiuta a pensar bene di tutte le coppie, e che quello che avete è qualcosa di speciale, che se ne frega di confini e distanze.
A fare un’ultima danza nel Paese prima che venga notte.
Nel bigliettino che mi hai dato insieme a “Lucky Country”, hai scritto, scherzando: un giorno, quando i nostri sforzi saranno riconosciuti, qualcuno scriverà finalmente la nostra storia.
Non c’è bisogno di aspettare, sorellina: la tua te la stai già scrivendo da sola, e da un bel po’. Da sabato, continuerete a scriverla in due, nel modo migliore che sapete.
Buona vita, sorellina, e buon matrimonio.
Ci rivediamo qui nel Lucky Country.
Un abbraccio,
Marco
Marco Zangari © 2017
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