Io & Lui (racconto)
Io è un altro.
Rimbaud
Se sei abbastanza fortunato, riesci ad evitare lo specchio. Io non sono fortunato.
Mi trascino fino al bagno ed eccomi lì. Non che mi dispiaccia quello che vedo, diciamo più che ci ho fatto l’abitudine, come la casa abbandonata alla fine della strada. Ci passi davanti tutte le mattine finché non fai neanche più caso alle scritte sui muri, al giardino incolto, al tetto che cade a pezzi.
Faccio andare il rubinetto, acqua sulla faccia.
Io che volevo mantenere un fisico decente. Che credevo che i capelli sarebbero rimasti neri e lunghi per sempre.
Esco dal bagno e per un attimo mi torna in mente che avevo cominciato a fare degli esercizi prima di colazione. Non ricordo quand’è successo l’ultima volta. Vado in cucina, metto su il caffè. Aspetto.
Arrivo in ufficio un po’ in ritardo, come ogni giorno. Intorno a me, ognuno è diviso tra il monitor e le chiacchiere della mattina, pettegolezzi d’ufficio, fatti d’attualità estrapolati dal contesto e pronti a diventare cibo per menti incapaci ormai di mangiare. Mi concentro sul monitor.
Io che volevo avere un mio studio privato, che credevo di poter fare il lavoro per il quale avevo studiato. Io che volevo fare qualcosa che ne valesse la pena, dove ogni giorno avrei imparato qualcosa.
Sullo schermo corrono numeri e frasi, frasi e numeri. Gli stessi di ieri, di un mese fa, di un anno fa. Quando mi avevano assunto, qualcuno mi aveva stretto la mano e mi aveva detto, “Bravo, stai pensando al tuo futuro”.
Io che sono in affitto, e potrei restarlo per sempre. Che se domani restassi senza lavoro, avrei la stessa cifra di quando ho cominciato.
Ma per fortuna ci sono le vacanze. Prendo il telefono, chiamo.
“Ti sei fatto vivo, finalmente” dice Serena.
“Scusa, sono stato impegnato” dico. “Come va stamattina?”
“Di merda, come sempre”
“Capito. Ti sei informata con l’agenzia di viaggi, alla fine?”
Lei sospira, io faccio finta di non capire. Guardo le cifre sullo schermo.
“Ci sono andata, sì”
“E?”
“Quel giro che avevamo in mente, viene a costare il doppio. Mi sa che dobbiamo ripiegare su qualcos’altro”
Io che volevo girare il mondo, viaggiare.
“E quando ci vado in Sudamerica? A cinquant’anni?”
“Se vuoi parlarci tu, accomodati” dice Serena.
“Scusa, e anzi grazie per essere andata?”
“Figurati” dice lei. “Stasera ci vediamo?”
“Possiamo prendere da bere dopo il lavoro, però alle otto mi vedo con Claudio e gli altri”
“Non mi avevi detto niente”
“Mi sembrava di sì” dico.
“Me ne sarei ricordata” dice lei.
Andiamo avanti un po’ e poi stacchiamo, ed io vedo le cifre distanti come è distante il Sudamerica, o come io e Serena stamattina.
Io che volevo restare single, che non volevo dover rispondere a nessuno.
Il bello di fare un lavoro che non ti piace, è che puoi farlo in automatico. Ti aiuta, quando devi far passare un’ora alla volta. Cominci pensando che sia temporaneo, che te ne andrai quando troverai di meglio (cos’è meglio per te?), e finisci per temere ogni volta che il capo si sveglia con la luna storta.
Io che volevo uno studio privato, o anche lavorare in una clinica di quelle che funzionano, dove si fa davvero una differenza.
Neanche l’avessi chiesto, il capo mi chiama nel suo ufficio.
“Vuoi un caffè” mi fa appena entro, e comincia a prepararlo prima che possa rispondere. Mi siedo. So come andrà. Parleremo in generale, esamineremo tette e culi delle altre impiegate (Io che non volevo trovarmi in queste conversazioni di merda), e poi lui si lamenterà della sua famiglia e, per compensare, mi farà la stessa domanda di ogni giorno.
“E tu quando ti sposi, Giacomo?”
Io che non volevo sposarmi. Io che non volevo figli.
Scuoto la testa. “C’è tempo…”
“Per te c’è sempre tempo” dice lui.
Ed ha ragione. Per me c’è sempre tempo.
Io che avevo tutta la vita davanti, e tutto il tempo per rimandarla.
Torno in ufficio. Non ho voglia delle cifre e dei numeri, così apro un po’ di quotidiani on-line. Mentre li leggo, trovo qualche energia residua dentro di me per incazzarmi. Mi guardo intorno, quasi temendo che quella incazzatura possa trasparire, e vedo Simone di contabilità che parla fitto con Lorena, quella che non sapeva trovare Word nel computer. Torno a leggere di scioperi falliti, di diritti calpestati, di ingiustizie di cui si scrive, ma delle quali non si fa niente.
Io che volevo cambiare il mondo a 16 anni, che volevo far qualcosa per migliorarlo a venti, che pensavo si potessero portare avanti lo stesso delle battaglie a 30.
Adesso ne leggo solo sul giornale. Il mio attivismo è quello. La differenza è che leggo di quelli che ora hanno la mia età. Non riesco a distanziarmi quanto vorrei, così chiudo tutto e torno ai miei numeri.
Io che volevo cambiare il mondo, ma quello che è stato cambiato, alla fine, risulta qualcun altro.
Dopo il lavoro, aspetto Serena in un bar a metà strada tra il mio ufficio e il suo. Mi sento stanchissimo, come mi capita sempre, e il fatto che sia venerdì mette solo una pezza temporanea a questa acciaccatura dell’anima.
Io che mi ripromettevo di tenermi il tempo fuori dal lavoro solo per me, di usarlo per girare, per conoscere, per studiare.
Quello che faccio, più spesso, è lasciarmi andare sul divano, guardando serie tv che non ho voglia di vedere, scorrendo sul telefono notizie che non ho voglia di leggere. Dò un’occhiata a Facebook mentre ascolto frammenti di dialogo noioso.
Io che volevo vivere ogni secondo.
Serena arriva, ed è strepitosa.
Io che volevo restare single, ma Serena è molto meglio.
Si siede, ordiniamo, cominciamo a parlare. Lei mi tiene una mano, ed è molto dolce.
Io che volevo restare single… no, io che volevo qualcuno da tenere così. Che non sapevo cosa fosse l’amore, ma speravo che qualcuno me lo riuscisse a spiegare.
E Serena ci riesce molto bene.
“Mi spiace per il viaggio, tesoro” dice lei mentre sorseggia il suo frullato.
“Lascia stare, spiace a me essermi arrabbiato” dico sorseggiando la mia birra. La gente ci passa intorno al tavolino, tutti molto più giovani di me. Non ci faccio più caso.
“Senti… hai poi guardato per quella casa che ti avevo detto?”
Io che volevo sempre rimandare.
“Non ho avuto il tempo” dico.
“Non è vero”
“Giuro” dico. “Sono stato… sai, quel progetto che stiamo facendo…”
“Certo. Quel progetto.”
“Perchè non mi credi?”
“Perchè so come sei fatto, Giacomo” dice lei. “Non vuoi andare a convivere, e figuriamoci parlare di matrimonio…”
Sorseggio la mia birra.
“Serena, piccola, è stata una giornataccia…”
“Per te è sempre una giornataccia”
E così ci avventuriamo in uno di quei discorsi che uno non vorrebbe mai avere il venerdì dopo il lavoro, e finisce come uno non vorrebbe mai che finisse, nè di venerdì nè qualunque altro giorno.
Io che volevo la pace, e trovo in giro solo la sua rivale in affari.
“Si è fatto tardi” dico.
“Vai” dice lei.
Mi avvicino per baciarla, ma lei si scosta. Corro fuori, prendo l’autobus che passa proprio in quel momento, e penso che l’arrivo dell’autobus oggi sia la prima cosa positiva di oggi.
Io che volevo restare single.
No, è stata la mano di Serena, l’unica cosa positiva.
Io che volevo qualcuno accanto, sempre.
Sono contento di essere qui, su quest’autobus.
Io che non volevo rendere conto a nessuno.
Guardo fuori, e so che non sarà a casa al mio ritorno.
Io che il matrimonio…
Con Claudio e gli altri ci vediamo al pub, che è lo stesso di quando avevamo vent’anni. All’interno sembra non sia cambiato niente, in tutto questo tempo. Nemmeno noi. Le conversazioni sembrano le stesse –lamenti, bestemmie, qualche sporadica ghignata ai danni di un altro del gruppo- ma i temi sono cambiati. Una volta si parlava di più di donne, di arte, di viaggi, di cazzeggi vari. Adesso c’è il lavoro, il contratto che finisce, i soldi che mancano.
Guardo le facce al tavolo, Antonio Stefano Frà, facce che conosco da più tempo della mia. Lo sguardo è divertito ma la mano resta saldamente avvinghiata al boccale. In viso hanno tutte le donne che li hanno lasciati, i contratti che non sono stati rinnovati, gli ideali che sono stati stuprati. Avevamo delle idee, una volta. Non ce ne fregava molto dei soldi. Volevamo rivoluzione, ragazze, un altro giro di doppio malto. Discutevamo animatamente, pensando che quel parlare stesso avrebbe cambiato le cose. Volevamo metterci insieme, lavorare ad un progetto comune, farcela col talento o schiattare in mezzo alla plebaglia.
Nessuno ne parla più da un pezzo.
Io che volevo cambiare il mondo insieme a loro. Io che ci credevo.
“Hai poi più ripreso quella tua… cosa?” mi fa Claudio un po’ in disparte. Claudio è l’ultimo di noi che forse ancora ci crede, ma sappiamo bene che è spacciato. Presto avrà un mutuo, che è un po’ come se a un pornoattore recidessero i gingilli di famiglia. Lo ammiro perchè ha lottato, e mi fa girare le scatole perchè non l’ho fatto anch’io.
“Sinceramente è un po’ che non ci penso, ho avuto da fare” dico mentre mi nascondo nel mio boccale, facendo annegare le ultime parole nella schiuma.
Frà sposta la discussione su un locale nel quale è stato tempo prima. Alla fine decidiamo di andare in questo nuovo posto, il “Dalilà”, dove si beve e si balla.
“Che cazzo dobbiamo ballare noi?” fa Claudio.
“É per fare qualcosa” dice Stefano.
Per strada ci rendiamo conto di essere già ben avviati per una sbronza. Ce ne accendiamo una e ci incamminiamo.
Io che volevo smettere di fumare, che ne avevo abbastanza di doposbronza e malditesta.
Il locale è pessimo, la musica che mettono anche peggio. Ma la birra è decente e, rispetto al nostro pub, ci sono un po’ di ragazze.
Stefano è sposato, Frà aspetta un figlio. Claudio è fidanzato da tempo immemorabile.
Il risultato è che restiamo in piedi, vicini, a buttare giù una birra dietro l’altra e a guardare ragazze che hanno dieci anni di meno, e sembrano sapere molte più cose di noi.
Io che volevo farmene il più possibile, che volevo scopare fino all’ultimo respiro.
Guardo le ragazze in pista come la pubblicità sorridente di un prodotto che sai già che è scarso. Ma a vedere quella pubblicità sei tentato di credere, per pochi secondi, che sia il prodotto migliore al mondo.
Io che volevo restare single e vivere di notte, incontrare donne, prenderle, dimenticarle subito.
Seguo i loro movimenti. Anche gli altri fanno lo stesso. Ogni tanto gettiamo lì un commento, senza esagerare. In fondo non è loro che stiamo guardando. Ci vediamo osservarle, e capiamo che è ora.
Mentre sto per uscire, incrocio lo sguardo con una biondina, seduta da sola su uno sgabello vicino all’ingresso. Lei ricambia lo sguardo, forse fa un accenno di sorriso, difficile dirlo con questo buio. É un attimo, e in quell’attimo ho solo Serena in mente. Finisco di chiudere la giacca ed esco al freddo.
Io che volevo farmele tutte.
Io che volevo trovarne solo una.
E l’avevo pure trovata.
Lasciamo il Dalilà con aria da fuoriposto. Ormai, comunque, sono pochissimi i luoghi che sembrano appartenerci, anche nella città in cui siamo nati e cresciuti.
Io che un giorno mi sarei finalmente sentito gradito a casa mia.
Ci salutiamo. Claudio si sofferma un po’ di più, fumiamo un’ultima sigaretta. É l’ora dei grandi discorsi, ma per me è già tardi.
Io che volevo vivere fino all’ultimo secondo.
Io che voglio solo andare a dormire.
Sul bus penso due cose.
Una, che sono completamente ubriaco.
Due, che non capisco cosa sia successo. In quale punto del fiume la corrente era stata incanalata e poi completamente deviata? In che modo la mia vita aveva cambiato il suo percorso, in maniera brusca ma quasi impercettibile? Era stato solo un evento? Qualcosa dall’esterno? Era stato l’invecchiare?
Ero stato io?
In serate come quella, quando tornavo a casa con un senso d’insoddisfazione opprimente nonostante mi fossi anche divertito, me la prendevo sempre con qualcosa o qualcuno. Era stato Claudio con i suoi discorsi profondi. Era stato Frà con le sue cazzate sulle ragazze. Era stata la birra. Era stata quella città di merda. Era il lavoro, sicuramente era il lavoro. Era lo stomaco che ultimamente non faceva bene il suo dovere.
Era qualunque cosa, ma non me stesso. Non ero io.
Io la vittima, io che ci provavo ma venivo sempre frenato.
Ma frenato da cosa? Avevo preso delle sprangate da parte di quello che comunemente si chiama destino, e quindi? Non succede forse a tutti?
Io che voglio solo parlare di me stesso, adesso.
Parliamone, allora. Quella “cosa” che menzionava Claudio. Sai, vero?
Io che… preferisco lasciar perdere.
E così ho fatto. Quella “cosa”, infatti, sta esattamente nel secondo cassetto della mia scrivania, nella mia casa affittata, e ci sta da 4 anni.
Io che ho smesso di crederci.
Certo, lo studio privato, la clinica, tutte cose che mi sarebbero piaciute. Ma il mio vero, unico obiettivo, era uno.
Io che sognavo di diventare scrittore.
Io che non lo sarò mai.
Per questo avevo smesso, come tutti, di parlare di me. Nessuno ci fa caso, ma parliamo di noi solo in termini di vanto (sto facendo questo, sono andato in vacanza lì) o di lamento (mi hanno fatto questo, non mi hanno riconosciuto quello). Nient’altro. I nostri io sono solo richieste di attenzione, di riparazione di un torto, di aspirazione ad una giustizia che in fondo non esiste, di riconoscimenti tardivi e, in ultima, poco importanti. Tutto quello che vediamo, col tempo, sono squarci allo specchio, come scene di film dell’orrore che cerchiamo di far passare il prima possibile. Siamo diventati dittatori dell’individualismo, ma non vogliamo sapere che cosa sia questo io. Siamo speciali, siamo unici, siamo i migliori: ci basta questo. Se qualcosa va storto, è colpa loro. Se capita un colpo di culo, ce lo siamo meritato. Disgrazie e successi seguono questa prassi. Continuiamo ad amarci sfrenatamente e ignorarci consapevolmente, finchè non è tardi per tutto.
Io che odio discorsi del genere. Io che volevo una vita che non è arrivata. Io…
Per tutta la strada fino a casa, penso a quel manoscritto nel secondo cassetto. Penso al mio lavoro lunedì. Penso a Claudio. Penso a Serena.
Serena non c’è. La casa è immersa in un silenzio ottuso. Entro, mi spoglio piano. Passo davanti alla scrivania, ma non mi avvicino. Domani, forse domani…
Mi manca Serena.
Io che volevo stare solo.
Io che voglio solo lei.
Io che non ho capito un cazzo.
Quando sono pronto, vado in bagno. Allo specchio ritrovo lo stesso tizio di stamattina.
Lo fisso, serio e barcollante, per qualche secondo.
“Io e te siamo due persone diverse”, dico.
Vado al cesso, tiro l’acqua.
É ora di tornare a dormire.
Marco Zangari © 2015
www.marcozangari.it
Pagina Facebook: Marco Zangari
Pubblicato sulla community per “creativi pigri” Yellow House
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