“La colazione dei campioni” – Kurt Vonnegut
Questo è il racconto dell’incontro di due uomini bianchi, solitari, macilenti e abbastanza anziani, su un pianeta che andava rapidamente morendo.
Kurt Vonnegut è folle. I suoi libri sono folli. Questo “Colazione dei campioni” (Feltrinelli) è, tra i suoi che ho letto, quello più folle. Non sembra nemmeno un romanzo, e forse non è nato come tale. Vonnegut diceva di averlo scritto un po’ qui e un po’ lì.
Direi che si nota abbastanza.
Il libro racconta, in termini estremamente generali, dell’incontro tra Kilgore Trout, scrittore di fantascienza sconosciuto ma destinato a fama planetaria, e Dwayne Hoover, venditore di auto usate che ha sempre condotto una vita tranquilla finché un giorno non gli si è allentato qualcosa in testa e, complice proprio un libro di Trout, si lancia in una serata di violenza, tanto gratuita quanto insensata.
Parlare di trama, riferito a questo “Colazione dei Campioni”, suona come un azzardo linguistico. La storia va liberamente a destra e sinistra, su e giù, seguendo ora Kilgore e Trout, ora uno dei tanti personaggi più o meno secondari, che durano una pagina o un capitolo, e che però riescono sempre a lasciare il segno grazie all’umorismo, alla ferocia e all’umanità di Vonnegut. Una volta abbandonato ogni tentativo di seguire un percorso, o anche di scovare chissà quali significati reconditi, potrete godervi il viaggio scombinato di Kilgore o la lenta quotidiana follia di Dwayne.
Il tutto, come se non bastasse, pieno delle classiche ripetizioni di Vonnegut (“e così sia”, “Ecc…”), quasi ipnotiche, e dei suoi disegnini (leggendario quello del buco di culo).
Poi all’improvviso, mentre si sta avvicinando il momento clou del libro, cioè l’incontro tra i due “protagonisti”, ecco spuntare proprio lui, Vonnegut. Se ne sta seduto al bar, a sorseggiare un Black and White con acqua, proprio lì dove Dwayne uscirà definitivamente di testa. Il libro a questo punto diventa fortemente autobiografico. Lo scrittore si inserisce nella storia che sta scrivendo e comincia a parlare di sé: il suicidio della madre, il rapporto col padre, la depressione e gli psicofarmaci. “La colazione dei campioni” è stato scritto da Vonnegut al compimento dei 50 anni, e non nasconde il fatto di essere una sorta di bilancio, sia artistico che esistenziale, di quel cinquantennio. Non a caso nella storia si ritrovano personaggi di altri libri di Vonnegut (tra tutti, il Kilgore Trout di “Mattatoio n. 5”, capolavoro antibellico che ho recensito qui), come se li avesse tutti invitati a questa lunga, bislacca, malinconica festa di compleanno.
Incontrando “di persona” i soggetti a cui ha dato vita con la sua penna, è come se Vonnegut volesse affrontare se stesso, le sue paure –e al contempo le paure di una società che, già dal titolo, l’autore prende ferocemente in giro, con quell’ironia e quel candore che ci aiutano a vedere questo mondo con gli occhi disincantati di un bambino, che non può che restare stupito di fronte a quel che vede. E non nel senso buono.
“La colazione dei campioni” si conclude con il bellissimo incontro tra l’autore e la sua creature, Vonnegut e Trout. Dopo aver parlato di come solo l’autore, come un dio capriccioso, ha il potere di rendere Trout famosissimo o cancellarlo per sempre, alla fine Vonnegut decide di parlare col suo personaggio e concedergli, come ultimo, fondamentale dono, quello del libero arbitrio.
E non è in fondo quello che fa ogni dio?
(Di Kurt Vonnegut ho recensito anche “Madre Notte” qui)
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