Nel sogno – I parte: la festa

 

Nel sogno c’era tanta gente vestita bene, in una villa sfarzosa ma non eccessiva. Doveva essere una festa, anche se non sapevo in occasione di cosa. L’idea era quella di un after-party dopo una presentazione, una prima, un evento in qualche modo importante. Come nei film , ma non esattamente: la gente non indossava smoking e non camminava con calici di champagne. Anche loro, come la casa, sembravano eleganti senza sforzo, in maniera non ricercata. Mi aggiravo tra un gruppetto e l’altro, riuniti a discutere di diversi argomenti che non sapevo cogliere. Erano discorsi lontani da me, ascoltavo qualche parola e mi sarebbe piaciuto poter capire il senso generale del discorso, ma non ne ero in grado. Mi spiaceva, perchè intuivo che non si trattava delle odiose chiacchiere vuote delle feste, quello “small talk” infarcito di storie avventurose e qualche battuta che fungono da palcoscenico per chi vuole farsi notare. Non importa, pensavo, ho pur sempre la scrittura. Parlare è per gli insicuri, per quelli che hanno un’idea su tutto e poi non ce l’hanno su niente. Scrivere è diverso. Filtri l’universo in un bicchiere e poi butti giù quello che resta.
Così mi consolavo, e scivolavo piano tra i gruppi, senza dolore e senza piacere. Ero fuori da tutto.
Ad un certo punto, qualcuno si rivolse a me.
«Abbiamo saputo…» disse, ma persi il resto della frase.
«Scusa?»
«Si parlava di… Com’è andata?»
Era come una conversazione al telefono con la linea che andava e veniva. Gli altri del gruppo, che adesso avevano puntato gli occhi su di me, sembravano aver ascoltato tutta la frase. Ero l’unico, là in mezzo, che non capiva. Era spiacevole, perchè era chiaro che si trattava di qualcosa che mi coinvolgeva direttamente –addirittura, qualcosa che forse avevo fatto io – quindi dovevo esprimermi. Che fare? Come ti capita quando ti chiedono qualcosa in una lingua straniera e tu non capisci al volo, cominciai a parlare e, contemporaneamente, a mettere insieme i pezzi di frase per estrarne un minimo di senso.
«Mah, sai come vanno queste cose, ci sarebbe stato molto altro da dire e fare, ma come sempre uno poi non riesce, quindi… Però ho fatto quel che potevo, in quella circostanza»
Parlavo velocemente –troppo velocemente, lo sapevo, e mi odiavo un po’ per questo, perchè era la fretta che mi veniva quando ero a disagio, l’imbarazzo del non sapere e di provare a nasconderlo dietro un muro di parole esitanti, masticate male. Era un imbarazzo che veniva da lontano, dai tempi della scuola, delle interrogazioni alla cattedra di cui non mi importava niente, ma mentre ero lì e l’Autorità mi fissava, sapevo che dovevo dire qualcosa, ma non sapevo cosa. L’orologio che ticchettava, il tempo che si faceva sabbia mobile, gli occhi su di me come fucili pronti a fare fuoco sulla mia autostima.
Nel sogno, mi guardai intorno velocemente, per leggere sugli sguardi dei presenti se l’avevano bevuta oppure no. Avevano strani sorrisetti, che non riuscivo a interpretare come intesa e solidarietà. Stavo diventando paranoico, cominciavo a sudare. Rimpiangevo il camminare piano tra i vari gruppi, l’essere fuori da tutto.
«Quindi, che ne pensi alla fine?» mi chiese di nuovo la stessa persona. Era un uomo che non inquadravo bene, sicuramente non lo conoscevo, era solo un collage sfumato di volti conosciuti, altri incrociati per strada e immagazzinati senza saperlo e forse qualche faccia vista in tv –come spesso succede nei sogni.
Non mi andava di essere pressato in quella maniera. Sentivo che le motivazioni di quell’uomo non erano del tutto sincere. Era uomo di mondo e ne sarebbe uscito bene, lui, sia che avessi risposto, sia che avessi fatto scena muta. Era pronto a ridermi dietro, così come ad annuire e approvare quel che avrei detto. Per lui era indifferente, avrebbe vinto comunque. Quel gruppo era il suo gruppo.
«Che sarebbe potuto andare meglio – che può sempre andare meglio»
Una banalità di circostanza, parole svuotate. Mi stavano spingendo verso qualcosa che non faceva parte di me. Li odiavo. No, mi odiavo per averglielo permesso. Non dovevo dar certo conto a queste persone. Eppure, non potevo fare a meno di parlare.
«… nonostante tutto, credo che alla fine sia andata meglio rispetto alle aspettative. Non era semplice, sai, e quindi mi sono dato da fare con quel che avevo in mano…»
Parlavo ancora troppo velocemente, senza staccare gli occhi dal mio interlocutore –era un modo per fargli capire che, se anche le mie parole sembravano sfuggenti, io ero lì e non mi sarei mosso.
Poi, improvvisamente, capii. Si trattava di me, come avevo intuito. L’uomo di mondo mi aveva chiesto di qualcosa che avevo appena fatto –la presentazione di un mio libro, come avevo intuito, o forse una lettura. Non ero sicuro che quella festa fosse collegata direttamente al mio evento, ma ero certo, senza possibilità di smentite, che si trattasse di me. Fu un’illuminazione improvvisa, e una salvezza. Finalmente avevo in pugno la conversazione. Finalmente sapevo cosa dire e come dirlo. Rallentai il ritmo, scelsi bene le parole. Eravamo nel mio terreno adesso, potevo farne quel che volevo.
In quel secondo, però, mi resi conto che una donna, in mezzo a quel gruppo di volti anonimi, mi stava fissando e sorrideva beffarda. Era una chiara presa in giro. Sapevo che non doveva essere dovuta alle mie parole, perchè finalmente avevo trovato le cose da dire. Seguii allora lo sguardo della donna, fino ai miei pantaloni. In quel momento mi resi conto che stavo indossando i vestiti che di solito avevo in casa – il pantalone di una tuta, una felpa. Sentii il sangue che mi arrivava al viso, pronto ad esplodere verso ogni capillare. Una patina di sudore mi rivestì completamente. Cosa ci facevo vestito a quel modo, in mezzo a quella festa? Come avevo potuto non accorgermene fino a quel momento?
Non erano i vestiti in sè. Mi piaceva star comodo a casa e quelli, tra l’altro, erano gli indumenti che indossavo quando scrivevo, alla mia solita scrivania. Non gli davo nessuna importanza, erano simboli privi di valore per me.
Nonostante questo, in quel momento sentivo la disparità tra il mio abito ed il loro. Come andare ad una festa in maschera ed essere l’unico mascherato. O forse era l’esatto contrario.
All’imbarazzo si aggiunse la rabbia. Proprio adesso che mi potevo esprimere come desideravo, venivo colto in fallo, indicato per qualcosa che non aveva nulla a che fare con quello che avevo da dire.
Ricominciai a balbettare, a parlare troppo velocemente – stavolta per sviare l’attenzione da quella mia scoperta vergognosa – finchè non fu un altro uomo del gruppo a metterlo sul tavolo.
«Ma scusa, quei vestiti… ?» fece, con un sorrisetto malizioso.
Eccolo. Aveva nominato l’innominabile, il re era nudo. Adesso non potevo più far finta di niente. Come uscirne?
«Ma sì, sai, volevo star comodo…» buttai lì, nella maniera più rapida possibile. Volevo che venisse fuori come una battuta, ma ero troppo nervoso per suonare divertente. Li investii ancora con le mie parole, come se quello che avevo da dire li potesse distrarre da tutto il resto.
«E quelle scarpe?» disse qualcun altro, con un tono che si spingeva sempre piu fino allo sfottò.
Abbassai lo sguardo, cercando di non essere teatrale. Vidi che indossavo delle ciabatte usurate, con quella destra che aveva una linguetta che pendeva per aria come la molla di un orologio che si sia arreso. La linguetta era mangiucchiata.
«Ah, il mio cane, sapete» dissi, e sorrisi. Dentro di me, lo stupore si univa all’imbarazzo. Ero davvero arrivato fin lì, in quella casa, con quelle scarpe tutte rotte? Com’era possibile? Finsi disinvoltura e tornai a parlare, ma era come se mi avessero visto il bluff ed io ancora cercassi di dimostrare che gran punto avessi. Mi avevano spogliato, loro eleganti, e avevano riso della mia nudità. Non potevano attaccare le mie parole, e quindi avevano usato i miei vestiti. Non capivo se l’argomento non li interessasse (allora perchè chiedermelo?) o se in qualche modo volevano che non ne uscissi bene (per quale motivo?). Fatto sta che ora, soltanto ora, il gruppo era soddisfatto. Minimizzare le scarpe o i vestiti non era servito. Non ne avevano nemmeno riso, perchè quella festa, in fondo, era dannatamente seria e non c’era posto per un sorriso vero.
Non mi vergognavo dei vestiti. Erano quello che sono, facevano parte di me. Mi infastidiva il contrasto con loro, quell’indicare, quel non stare ad ascoltare, quel trovare l’elemento secondario che potesse distrarre.
Non avevo, di nuovo, più cose da dire. Lasciai il gruppo e camminai in mezzo alle altre persone, cosciente di me stesso, cosciente della festa, cosciente di essere, ancora, fuori da tutto.

 

Marco Zangari © 2017

 

 

Nell’immagine: “Society Ball”, Avtandil

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