“Per i sentieri dove cresce l’erba” – Knut Hamsun
La vendita del tabacco è tornata libera, ma neppure nel fumo riesco a provar gusto, nemmeno un po’. Cosa voglio, perché mai sono così indisponente? Bene la primavera, bene l’estate, ma Dio che situazione stupida! Mi metto a temperare due matite nuove con il coltello, per prepararmi ad un’eventuale spiegazione sublime, ma pare che non ne vogliano venire. La questione è che mi sento sottosopra, sono stanco di me stesso, non possiedo più desideri né interessi, né gioia. Quattro o cinque buoni sensi in letargo e il sesto portato via.
Posso esserne grato al procuratore generale.
Knut Hamsun è stato sicuramente uno di quegli scrittori che lasciano il segno –e non solo sulla carta. Nei suoi ben 92 anni di vita, è riuscito a farci entrare più o meno tutto: gli inzii modesti, la povertà, il vagabondaggio, i viaggi ai quattro angoli del globo, e poi i primi libri, il successo, il Nobel per la letteratura, la guerra.
Una carriera longeva quasi quanto la vita su questa Terra, perché, per dirla con Bukowski, “Hamsun non ha mai finito di vivere, e quindi non ha mai finito di scrivere”.
Proprio Bukowski era tra i suoi ammiratori, che non erano affatto pochi. Henry Miller ne era così influenzato che un giorno decise addirittura di chiamarlo per poterlo conoscere. Secondo lo stesso Miller, Hamsun in quel periodo navigava in cattive acque –al punto che la telefonata si trasformò in una richiesta di prestito da parte dello stesso Hamsun. Peccato che Miller navigasse in acque peggiori delle sue.
Non so se John Fante fu tra i suoi fan, ma di certo il leggendario “Chiedi alla polvere” deve molto al primo successo di Hamsun, “Fame”, un libro ironico e feroce, incredibilmente innovativo per i suoi tempi e d’esempio per parecchi romanzieri del secolo scorso.
Io di sicuro c’ero, tra quegli ammiratori, al punto che “Fame” è stato uno dei libri che ho deciso di portare qui nel mio primo, lontano viaggio in Australia –a scapito di mutande e calze che lasciai sul letto di casa.
Un po’ di fame la feci pure, quando andai a raccogliere mango nella zona tropicale –ma questa è un’altra storia.
In una vita così piena, non poteva mancare il finale controverso.
Hamsun, ormai scrittore celebrato in tutta la Norvegia, durante la Seconda Guerra Mondiale sostenne la Germania nazista, che aveva invaso il suo Paese. Sono passati alle cronache i suoi incontri con Goebbels e Hitler.
Alla fine della guerra, Hamsun fu accusato di collaborazionismo e recluso, per poi essere internato in un ospedale psichiatrico.
“Per i sentieri dove cresce l’erba” (Fazi Editore) inizia proprio qui –dalla fine dell’Hamsun eroe nazionale, e l’inizio del suo periodo più oscuro.
L’inizio del libro è semplice e lineare, come tutta la sua prosa. Hamsun –che stavolta rinuncia a personaggi ed alter ego per mettersi a nudo- non si nasconde dietro involuzioni e trucchetti. La sua inizia come una cronaca, più che come un atto di difesa. L’autore norvegese si limita a nararre le sue peripezie da recluso, le sue piccole rinunce materiali, mettendo bene in evidenza il fatto che a lui non importa più di tanto: sono anziano, vada come deve andare.
Hamsun non mette le mani avanti, nemmeno quando descrive il processo iniziale. Non nuota contro la corrente della Storia, che in quei giorni sembra voler ricominciare da capo dividendo tra buoni e cattivi.
Una volta archiviato il processo –di cui Hamsun parla brevemente, dando per scontata la sua colpevolezza- le pagine scorrono veloci e descrivono i vari stati d’animo che lo scrittore si trova ad affrontare in quella situazione da prigioniero senza sbarre –e senza una pena precisa. Hamsun avverte l’odio intorno a sé –la suora che si rifiuta di parlargli, il ragazzetto che gira alla larga dalla sua capanna- ma tutto sommato mantiene una forza d’animonotevole. Questo, ovviamente, fino a che non mette piede nell’ospedale psichiatrico.
Molto si è detto di quest’opera –che per molti è la prova che Hamsun fosse coerente e sano di mente, nonostante l’età e i problemi di salute. Ed effettivamente il libro ha tutto della sua solita prosa vivace –ogni tanto si inserisce qualche storia un po’ sconnessa ma si percepisce subito che, pur acciaccato e anziano, Hamsun può dare parecchie piste a tutti gli altri scrittori.
L’ospedale si rivela un’esperienza traumatica e frustrante. Hamsun ha la sensazione che vogliano trovarlo a tutti i costi matto, nonostante la lucidità incredibile che continua a dimostrare. Le sue condizioni peggiorano. Sordo, quasi cieco, isolato dal mondo, rinnegato dal suo popolo. Esasperato, chiede al procuratore di poter parlare, di poter dire la sua. Se proprio lo devono pensare colpevole, almeno che lo stiano a sentire.
Il libro –che non è un romanzo, e nemmeno un vero diario- è interessante in quanto cattura un periodo in cui, come detto, la Storia si stava giudicando, assolvendosi o condannandosi, decisa a fare piazza pulita, pronta a dimenticare nuovamente. La storia di Hamsun ha fatto versare fiumi di inchiostro senza che si sia mai arrivati ad un verdetto. Ma probabilmente non è quello il punto. Hamsun, lungi dal voler impietosire o giustificare, ha voluto ritrarre l’aspetto umano della sua vicenda, al di là di innocenza o colpevolezza.
Non è il libro migliore di Hamsun, e qualche parte sicuramente ha risentito delle dure condizioni a cui lo scrittore era sottoposto –ma è un’opera consigliata a chi già lo conosce, e una testimonianza fondamentale di un momento della storia mondiale delicatissimo e decisivo.
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