“Reach for the sun : Lettere 1978-1994” – Charles Bukowski
Il pubblico ha questa grassa, moscia, sgradevole idea dell’Arte, la vede come fatta da tizi carini, puliti, intelligenti, con accenti francesi, tedeschi, soprattutto inglesi. Non sanno assolutamente che potrebbe essere fatta da un autista di autobus, da un bracciante o da un cuoco di fast food. Non sanno assolutamente da dove venga l’Arte. Viene dal dolore, dalla dannazione, dall’impossibilità. Dai colpi alle budella dell’anima. Viene dal restare bruciati e cotti e presi a botte. Viene dall’essere troppo vivi in mezzo a tanta morte.
da una lettera di Charles Bukowski, 1991
Di Bukowski –Hank per gli amici– si è detto di tutto e di più. Lo hanno accusato di essere misogino, misantropo, razzista, alcolizzato, illetterato, pervertito – e alcune di queste cose potrebbero anche esser vere. Di una sola, però, non lo si sarebbe mai potuto accusare: di essere qualcuno che scriveva poco.
La sua produzione è sempre stata strabordante: decine di romanzi, centinaia di racconti, senza tener conto delle poesie. E poi ci sono le lettere.
“Reach for the sun” è la collezione di missive del buon Buk, che copre gli anni tra il 1978 e quello della morte, il 1994. Ancora in attesa di pubblicazione in Italia (per quel che ne so), segue “Urla dal balcone” e “Birra, fagioli, crackers e sigarette”, pubblicate entrambe da Minimum Fax, che raccolgono rispettivamente le lettere degli anni ’60 e ’70.
Le due raccolte di lettere del Vecchio Sporcaccione erano state, per me, un’illuminazione –perché divertenti, interessanti, incredibilmente leggibili e godibili. Non c’era nessuna differenza con la parte “creativa” della sua produzione, e questo voleva dire che Buk viveva intensamente le parole che poi metteva giù, e poco importava se si trattasse di un romanzo o della sua vita di tutti i giorni (e non è un caso che la maggior parte dei suoi scritti abbia ispirazione autobiografica). Le due raccolte mi erano piaciute tanto che me le sono sobbarcate dietro dall’Italia, e adesso riposano pacificamente nella polvere della mia libreria a Sydney.
Per questo, le aspettative per questo “Reach for the sun” erano altissime. Ero curioso di vedere la parte finale della carriera di Buk, quando ormai stava raccogliendo conferme dal mondo letterario e stava conducendo una vita più stabile (per quanto possa esserlo, parlando di un uomo che ha continuato a ubriacarsi e andare alle corse per cavalli fin quasi ai suoi ultimi giorni).
La raccolta, per un fan di Bukowski come me, è indubbiamente una miniera d’oro. Si trovano tanti concetti che Buk aveva più volte ripetuto, sia per lettera che attraverso i suoi libri –ma in più, racconta anche come sono nati alcuni suoi lavori: dal romanzo sull’infanzia “Panino al prosciutto” (che da ragazzo avevo eretto a mia personalissima Bibbia) al film “Barfly”, di cui aveva scritto la sceneggiatura.
“Reach” è una lettura corposa, dal momento che mette insieme 15 anni di lettere (tra l’altro scritte da un uomo che non sapeva star fermo con le mani), e qualche volta può suonare ripetitiva, specie per chi non è un groupie di Bukowski come il sottoscritto. Allo stesso tempo, il tono generale è molto diverso dalle precedenti raccolte, e per ovvi motivi: Buk non doveva più lottare con lavori orribili e case in affitto decadenti come negli anni Sessanta, o con donne furiose, assatanate, gentili o semplicemente pazze come negli anni Settanta. Nello scrivere queste lettere, divide la sua nuova casa di San Pedro, un tranquillo sobborgo di Los Angeles, insieme a Linda, l’ultima compagna (e moglie) della sua lunga carriera di scopatore (vero o presunto). Ormai vive anche di ciò che scrive, e comincia anche ad avere i primi riconoscimenti (non soltanto economici). Di qui, la differenza nelle lettere – non più composte da confidenze con amici e grida d’aiuto sulla sua vita allo sbando, ma più orientata su discussioni letterarie. In “Reach” Bukowski si dilunga in discussioni sulla poesia, sul romanzo, sulla scena letteraria americana e mondiale – ripetendo concetti che sono familiari a chi lo segue con affetto da tempo, e che potrebbe rallentare un po’ la lettura di questo malloppone.
In ogni caso, le lettere di Buk sono sempre piene di ironia, tantissima autoironia (così rara, specie in un autore finalmente apprezzato), di spunti brillanti e di immagini potenti.
Da parte mia, ho trovato interessante soprattutto la parte finale, quando Buk, malato di leucemia, raccontava ad amici e conoscenti l’approssimarsi della sua morte, dopo averla così spesso invocata e sbeffeggiata con i suoi scritti e con i suoi atteggiamenti distruttivi. E’ un Buk spaventato, com’è anche umano pensare, ma che non riesce a non scherzare anche sulle infermiere che in ospedale gli sculettano davanti. Conserva una lucidità e un’ironia incredibile anche quando i medici gli dicono che non c’è più niente da fare. Lo sa che gli dei gli hanno dato tanto, ma anche che sono in debito per essere arrivati così tardi nella sua vita.
Nell’ultima lettera della raccolta, poche righe scritte solo 10 giorni prima della scomparsa, racconta che una volta conosceva un tizio che era finito in carcere. Un giorno quel tizio era stato preso e messo nel “buco”, in isolamento. Quando gli chiesero, alla fine, se voleva essere tirato fuori di là, lui disse di no.
Loro lo tirarono fuori comunque, pensando che fosse pazzo.
Buk pensò che fosse l’uomo più sano che avesse mai incontrato.
Per tutto questo, quando giri l’ultima pagina di questo libro, pur sapendo già che finiva così, non puoi non sentire un senso di perdita, come quando va via un amico.
Perché questo, alla fine, era anche Buk – Hank, per gli amici.
Per questo Hank non smetterà mai di mancarci.
Marco Zangari © 2017
www.marcozangari.it
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