Settembre
Caro zio,
nonostante me lo riprometta ogni volta, dimentico sempre una regola fondamentale della vita: mai mettere insieme settembre e De Andrè. Stavolta magari qualche scusa ce l’avevo, avendo mancato gli ultimi 4 settembre italiani. Eppure il settembre è luogo dell’anima, umido e irrisolto, malinconico e sospeso. E noi, in quel luogo, ci sguazzavamo alla grande.
Il settembre al mare, qui nella mia Liuzzo City, voleva dire tante cose: esami universitari preparati di corsa per evitare il militare, lunghi pomeriggi di pioggia, solitudini estreme come non ci fosse stato mai nessuno in quel paesino, come se l’estate avesse saltato un turno.
Però settembre voleva dire anche te che venivi qui la mattina (dopo aver compiuto il tuo rito) e poi in macchina a girovagare per strade deserte battute dalle onde del mare. Voleva dire te e la tua chitarra. Te che ti liberavi un po’ dagli impegni, dopo estati piene per tutti -e le mie erano piene di guai. Settembre era il nostro tempo per rifiatare, per farci due conti e trovarli in rosso e poi berci sopra e fumarci un’infinità di sigarette nelle nostre «sbampiate» nel terrazzo di casa tua. Lo chiamavamo «il terrazzino degli artisti», ricordi? Non so più neanche perchè. Forse perchè ci nutrivamo di quegli ampi spazi intorno lasciati vuoti dalla gente tornata alle sue vite, e noi che cercavamo di riempire la nostra come potevamo.
Forse, anche, perchè da quel terrazzino è giunta l’ispirazione per l’unica canzone che ho mai scritto, che poi è solo una poesia più lunga delle altre. L’avevo chiamata «Hotel Morgana», e senza quelle nostre serate di pioggia non sarebbe mai esistita.
Sai, nonostante le apparenze, non sono tipo da rimuginare nostalgie per troppo tempo. Dovendo gestire distanze così grandi, ho imparato a farmi io piccolo, a restringere tempi e luoghi e prenderli a minuscole dosi, un po’ alla volta. Ma se dovessi elencare le cose che più mi mancano della mia vita pre-Australia, sicuramente ci sarebbero quei settembre.
Il che è paradossale: io li odiavo, quei settembre, mentre li vivevo. Mi sembravano deprimenti, vuoti, solitari. Era la degna fine di estati che volevo solo mettermi alle spalle, prima di lanciarmi nel vuoto di un inverno dagli esiti sempre imprevedibili. Mentre tutti si lasciavano scolorire l’ultima abbronzatura, tra residui di amori d’agosto e foto al mare, io restavo a guardia di un posto che si svuotava giorno dopo giorno. No, non ero esattamente pazzo per quei settembre lì.
Però c’eri tu, zio, e insieme ce la contavamo, e grazie alla tua chitarra ce la cantavamo anche, stappavamo qualche birra nel pomeriggio, allungavamo le gambe sul tavolo, tu posizionavi la tua sigaretta incastrata tra le corde, e pensavamo che tutto sommato lì non ci stavamo male. L’estate era finita, e finalmente potevamo respirare e godercela come potevamo. Non siamo mai stati esattamente tipi da folle oceaniche, e quando eravamo io tu e R. (che spuntava immancabile ogni volta che suovani «Domenica lunatica», salcazzo perchè), bastava così.
Non sapevamo cosa ci aspettava dopo ma intuivamo non fosse niente di buono, e così lasciavamo che Faber parlasse per noi, ce lo infilavamo ovunque, lo cantavamo, discutevamo, oppure lo amavamo e basta trangugiando birra e guardando quel silenzio farsi crepuscolo sul mare. I ritorni in macchina da chissadove, con Fabrizio che passava senza sosta dalla radio e noi a cantare a squarciagola, finchè le nostre voci stonate non si fondevano col panorama grigio intorno, e noi ci sentivamo vivi in mezzo allo sfacelo e alla tristezza, perchè la sapevamo padroneggiare meglio della finta allegria degli ultimi mesi, perchè sapevamo che vivere è tosto, e che una birra in buona compagnia è meglio di molte altre cose.
Eravamo anime salve con una Malboro in bocca, e come nella canzone, arrivava il momento di vederci di spalle, che partivamo. Settembre era anche partenze: io per Roma, tu alla tua vita di qui. Concludevamo qualcosa a cui non sapevamo dare un nome, e lo riprendevamo dove l’avevamo lasciato l’anno dopo. Questo finchè un giorno (sempre di settembre, ovviamente), mi hai accompagnato a Villa S. Giovanni a prendere un treno che, tappa dopo tappa, mi avrebbe portato dall’altra parte del mondo.
Niente più terrazzino a settembre. Poi un giorno venisti da me (era luglio, ma dentro era un settembre a tutti gli effetti), io ero tornato momentaneamente a vivere a Messina e la marea mi stava risbattendo dall’altra parte del mondo, e tu stavi invece per andare alla tua prima avventura, a Milano. Tesi, inquieti, immersi fino alle ginocchia in addii che erano troppo da guardare tutto assieme, allora stavamo zitti a tirare dalla sigaretta, pensando a quando latitudini e coincidenze avrebbero di nuovo fatto incrociare le nostre strade.
Sono felice di poter dire che, nonostante i nostri silenzi (dovuti a caratteri introversi più che ad altro), siamo sempre rimasti lì, e sapevo questo pure prima che mi informassi che ti saresti sposato, sempre qui, sempre a settembre, e che volevi che io fossi il tuo testimone. E’ stato un onore, più di quanto il mio balbettare al doppio malto abbia saputo esprimere. Sapevo il percorso che avevi compiuto con lei, quella strada infinita che dai banchi di scuola vi aveva portato poi a traslocare le vostre radici, con tutti i dubbi e le incertezze del caso. Trovarsi lì con lei, dopo tutto questo, è come trovarsi alla fine di un viaggio di quelli pieni, significativi, vitali. Non poter essere lì con voi a festeggiare questa fine viaggio (e ovviamente l’inizio di un altro) mi amareggia e mi riporta presente la mia condizione quasi da esule, che deve programmarsi relax ed emozioni, e il tempo che non basta mai. Sono lieto, però, di avervi visto durante quel viaggio, di essere stato testimone di tappe significative, di aver bevuto e riso con voi, e per questo so che, alla fine, ci sarò comunque.
Non è lo stesso, ma ho voluto dedicarvi questo pensiero di settembre. Dopo tanto girare, dopo tanto suonare, dopo tanto aspettare, noi siamo ancora qui, e abbiamo intenzione di restarci a lungo.
Fate buon viaggio, ragazzi, vecchio o nuovo che sia.
E per te, zio, che dire? Settembre sbarella il cuore e fa straparlare. A me non resta che mettere su un altro pezzo di De Andrè, vedere la pioggia che bagna la campagna qui fuori per l’ultima volta prima che quell’aereo decolli, e pensare che sì, forse tutto questo può suonare patetico, ma io non sono triste.
Piuttosto, sono grato per ogni momento che ho diviso con te, con tutti voi amici in quest’estate, e oltre. E’ bello sapere che siete lì. Ci sarà sempre un terrazzino bagnato dalla pioggia ed una stanza al Morgana.
Ed è per questo che io tornerò sempre.
Buon proseguimento, buon matrimonio, buon autunno.
Ci si vede, come sempre, al prossimo giro.
(pubblicato su Hotel Morgana il 7/9/2014)
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