Tempesta (racconto)
Sta piovendo ed io devo fare qualcosa. Solo che non so cosa.
Sono qui al mio tavolo, a far scivolare i tasti su questa tastiera, e fuori piove. Sento la pioggia cadere sul balcone, sulle macchine in coda, su quelle che sono riuscite a sfuggire al rosso del semaforo. La sento accarezzare i muri e inghiottire i palazzi. La sento e mi dico che è il momento di agire.
Un bel corso universitario sembra la risposta giusta. Ma aspetta: lo è davvero? Potrei andare a lavorare, ma al momento è tosta per i lavoratori qualificati, figurati per me. E poi non ho molta voglia di lavorare. Non ancora, almeno. Non ti dico che voglio godermi la vita –mi sembrerebbe un po’ troppo, così leggero da sembrare irrispettoso- però dai, qualche anno qui fuori me lo voglio fare. Sarà davvero così la vita universitaria? Quanto sarò davvero “fuori”? Non lo so ancora, ma meglio di quell’altra strada lì, è. Adesso però bisogna scegliere: quale corso?
Ci penso mentre la pioggia continua imperterrita e, mentre sono lì a scegliere il master e lo stage e il dottorato, comincia a traboccare dai tombini, a colmare lo scalino tra strade e marciapiedi, a far andare i tergicristalli delle auto alla massima potenza. Un cielo nero, rischiarato dall’incertezza effimera e geniale del lampo, incombe su tutti noi. Sarà meglio prepararsi.
E poi adesso devo pensare al lavoro. Qui le cose si fanno serie. No, non sono stato poi così “fuori” come speravo, ma da qui non si torna indietro. Così mi hanno detto. Adesso devo scegliermi una professione, qualcosa che assorbirà la maggior parte del mio tempo e delle mie energie da qui a quando non mi serviranno più granchè. Quindi la scelta è tosta –diavolo, ma quanto sta piovendo là fuori? Non riesco quasi a concentrarmi. Ma devo farlo, perchè da questa scelta dipenderanno tante cose. Dipenderà il tipo di vita che farò, e perfino con chi la passerò. Dipenderà la mia visione su quello che succede nel mondo, facendomi credere di essere ottimista o pessimista di natura. Dipenderà come verrò visto dagli altri, che finiranno per identificarmi con quello che faccio e con quanto guadagno. Anch’io finirò per credere al modo in cui mi vedono loro, e mi vedrò così.
Ma qui le incognite sono tante. Potrei trovare lavoro nel settore per cui ho studiato, e forse sarà quello che mi piacerà fare. Potrei anche non essere così fortunato. Potrei dover andar via da qui –sempre che la pioggia me lo permetta. Andare lontano, e ancora pensare che queste sono scelte secondarie. Intanto qualcuno deciderà di me, se valgo ancora la pena, quanto vale un’ora del mio tempo, quali regole dovrò seguire, quale atteggiamento dovrò assumere. E se finisco per fare qualcosa che odio? Se poi dovrò continuare a farlo solo per pagare l’affitto o per mantenere la mia famiglia?
Ah, ma io non ho una famiglia. Non ancora. Adesso mi devo concentrare sul lavoro che dovrò fare, qualunque esso sia.
Fuori la pioggia sale di regime, picchia con forza sui tetti e sui lampioni, diluvia sulle serrande e sulle finestre. Gli ultimi viandanti corrono per ripararsi nel primo portone libero, ora che l’acqua è ormai salita al livello delle loro gambe. In quell’acqua, scura come il cielo che ci sovrasta, galleggiano diplomi, cedolini, certificati, fogli di tesi e qualche poesia adolescenziale, di quelle scritte a mano. Ci sono mulinelli vicini alle auto, che sembrano sempre più bloccate nell’ingorgo. La pioggia oscura a tratti la luce dei loro fanali. La seguo come un codice morse che vuole dirmi qualcosa, e mi rendo conto che adesso che, bene o male, ho un lavoro, è tempo di farmi quella famiglia di prima.
Non sono più solo. Ho trovato una persona, e sto pensando, qui seduto al mio tavolo, se sia quella giusta. Come posso scoprirlo? Oh sì, so che ci sono tante frasi fatte, tanti discorsi sull’amore, tante banalità del tipo se te lo chiedi sai già che non va bene, se è lei lo senti subito e via dicendo. Eppure nessuno ti aiuta in questa scelta. Tutti sono bravi a dettare linee guida e comportamenti, quando non si tratta di loro. Tu sai già che tieni a questa persona, ma poi? Ti sveglierai ogni giorno accanto a lei, sarà lì ogni volta che vorrai allontanarti dal mondo e guardarti in fondo, dimenticando per un attimo il rumore della pioggia che copre ogni cosa. Ti sorreggerà e ti sfiderà, ti completerà e ti sommergerà. Potrai sempre divorziare, ricostruirti una vita. Ma devi dare una risposta, perchè il tempo passa e la pioggia cade.
Non si vede più nessuno sui marciapiedi. Chi poteva mettersi al riparo, lo ha già fatto. Ogni canale di scolo è adesso bloccato. Tuoni cadono in lontananza. Sull’acqua ora galleggiano buste paga, curriculum, buoni pasto e ventiquattrore. Qualche lampione salta. Un lampo mi acceca momentaneamente, e per evitarlo torno a guardare giù, alle mie mani, alle mie dita, alla mia fede, alle mie parole.
Adesso si parla di fare un figlio. Tutti ce lo chiedono, e la mia età è solo una delle prove che mostrano alla giuria già inorridita durante il processo alle mie intenzioni di padre. È così che si fa, punto. Rifletto sulle ragioni pratiche. Se perdessi il lavoro? Se qualcosa succedesse a me o a mia moglie? Se nascesse con qualche malattia incurabile? Passerei il resto della mia vita a prendermi cura della sua. Ma in fondo non lo farei comunque, malattia o meno? Ti ci vorrebbe una dedizione ed uno spirito di sacrificio che forse non hai. I soldi poi sono importanti. Inutile raccontarcela diversamente. Le scuole dove lo manderai, il futuro che potrai garantirgli oppure no.
Poi penso anche al resto. Se lo voglio davvero. Se la mia vita è già piena così, intensa così, insopportabile così. Se io e lei dureremo con lui. Se lui proverà qualcosa per noi. Se ha senso, in fondo, mettere al mondo una copia storta di noi, qualcuno che potrebbe ricordarci le nostre peggiori facce allo specchio la mattina. Se la soluzione ad un mondo sovrappopolato, attanagliato, inguaiato, sia inserire un’altra creatura. Penso alla pioggia. Non ha senso far nascere qualcuno con questo tempo.
Però: e se non si trattasse di un’emergenza? Se questa fosse la realtà d’ora in poi?
Guardo fuori e tutto quello che vedo è una massa d’acqua che ormai ha superato l’abitacolo delle auto in coda, che adesso probabilmente non arriveranno più dove dovevano arrivare. Il livello della marea supera quello dei piano terra, inghiotte cassonetti e buche per la posta, cartelloni e semafori. E su tutto questo, la pioggia non concede tregua, battendo sulla massa d’acqua e ciò che galleggia in superficie: copie di mutui, foto di nozze, planimetrie, inviti.
Ed io non so cosa fare.
Sento le gocce battere con violenza, bussando alle finestre, battendo il tempo, ed io non so cosa fare. Ora che mio figlio è cresciuto e se n’è andato, ora che tutto è stato fatto, che i debiti sono stati in qualche modo pagati, che il lavoro è finito, che ho dovuto scegliere qualcuno da votare, qualche squadra per cui tifare, qualche hobby per ammazzare le ore, com’è che questa pioggia non finisce?
Sento l’acqua che ormai ha seppellito tutto quello che c’era sotto, e tra poco toccherà a me. Sento già anzi che penetra sotto la porta e mi bagna i piedi. Tamburello con le dita nocchute, piegate dal tempo, la pelle quasi scolorita, e intanto osservo il mare di foto, di fogli, di ricordi che penetra fin dentro la mia stanza, trascinati dalla pioggia. Il rumore battente, incessante, non mi ha mai abbandonato. È stato tutta un’emergenza, e proprio adesso che il pericolo vero si sta avvicinando, mi sembra sia stata una mobilitazione inutile. Tanto doveva andare comunque così, no?
E già che ci siamo: doveva proprio andare così, o c’era qualche altro modo?
Non che mi servirà, quando l’acqua –che ora mi arriva alle ginocchia- mi sommergerà del tutto. Però questa cosa la vorrei sapere, questa solo almeno. Sono sempre andato avanti per suggerimenti, per regole scritte e non scritte, per scadenze, per consuetudini. Ho improvvisato e poi abbozzato, e me lo sono fatto bastare. Ma bastava veramente?
Questo solo vorrei sapere, adesso che l’acqua mi bagna il petto con una stretta fredda ma compassionevole.
Ne valeva la pena?
Rivedo tutti gli oggetti della mia vita, galleggianti e danzanti davanti al mio viso. Non riconosco alcuni, altri invece mi provocano una fitta, altri mi strappano un sorriso, qualcuno mi inumidisce gli occhi. Poi ne vedo un paio, lì in fondo, che avevo quasi dimenticato, e allora capisco subito. Ho la risposta.
Sto per darmela quando l’acqua mi invade improvvisamente i polmoni e mi cancella la vista. Dura pochi secondi, e dentro c’è tutta la mia esistenza.
Fluttuo per un po’ nella stanza ormai sommersa, insieme a tutte le mie cose.
Intanto, fuori la pioggia si fa meno sostenuta. Rallenta fino ad andare giù solo per inerzia, poi resta solo qualche goccia, come quando si chiude un rubinetto. Il cielo sempre scuro adesso sembra squarciarsi in una ferita che non fa male ma lascia intravedere colori, luce, e finalmente il sole.
La tempesta è finita.
Marco Zangari © 2015
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