“Zero K” – Don DeLillo
Quel lasciarmi andare alla deriva, da un lavoro all’altro, a volte da una città all’altra, era parte inegrante dell’uomo che ero. Ero quasi sempre fuori contesto, in qualunque contesto. L’idea era quella di mettermi alla prova, sperimentare. Le mie erano sfide mentali senza sottintesi negativi. Niente in gioco.
Jeffrey Lockhart è un uomo di mezza età che, come suggerisce la citazione in alto, vive alla giornata, senza un obbiettivo chiaro nella vita, portandosi dietro il dolore della morte della madre, con cui aveva un rapporto speciale, quasi da amici, e la cui perdita ha costretto Jeffrey a confrontarsi con un nodo di problemi e limiti tutt’ora irrisolti. Il padre di Jeffrey, Ross, è un supermanager ricco e potente, con tutti gli stereotipi del caso, e come da copione ha abbandonato moglie e figlio molti anni prima per risposarsi con l’archeologa Artis.
Adesso che Artis è arrivata agli ultimi giorni di vita, Ross invita il figlio a visitarli –non a casa, bensì in una struttura ultratecnologica situata in una zona deserta. In questa struttura, scoprirà Jeffrey, il corpo di Artis verrà congelato e conservato per decenni, finché lo sviluppo medico e tecnologico non permetterà a lei e altri nella sua situazione di tornare a nuova vita.
Le premesse del nuovo, attesissimo romanzo del maestro DeLillo c’erano tutte. Peccato che “Zero K” (Einaudi) non riesca a tenere il passo con capolavori dell’autore come “Underground”. Confesso di aver fatto una fatica cane a superare la prima parte, quella in cui Jeffrey si aggira per la struttura criogenetica, aprendo porte a caso, facendo riflessioni, aprendo altre porte, parlando con qualche tizio a caso, aprendo altre porte ancora. L’azione si muove a fatica, restando impantanata in un torrente verboso che diventa quasi claustrofobico, quasi come se fossimo pure noi rinchiusi nella struttura. Non sono nemmeno sicuro che il tema sci-fi si addica tanto al maestro, dal momento che per tutto il tempo sembra di avere a che fare con una puntata di “Futurama” –sapendo di già visto, e non aiutando molto la credibilità della storia. Sono rimasto per settimane bloccato in quella maledetta struttura, come mi capitava con le avventure grafiche della Lucas un ventennio fa, ai tempi da smanettone sulla mia Amiga 500.
Oltre ad essere lenta, la parte della struttura sembra artificiosa, e cosa peggiore, poco interessante. Il tema non è nuovissimo, e niente viene aggiunto anche in questo caso. La penna di DeLillo, geniale in libri come il già citato “Underground”, si scalda un po’ nella seconda parte del romanzo, descrivendo una situazione di caos urbano, spirituale ed esistenziale che mescola terrorismo e amori difficili, indifferenza e pensieri sulla morte. I temi degli altri libri di DeLillo vengono ripresi, senza portare però ad un nuovo risultato –sembra più che altro un upgrade, per descrivere questo decennio, ma rispetto alla portata di “Rumore bianco”, ad esempio, non si aggiunge molto.
In tutto, forse la mancanza più grande di “Zero K” è quella del coinvolgimento. Né il protagonista Jeffrey né i suoi vari comprimari –incluso il padre- sembrano persone vive, né riescono a prendere il lettore, nel bene e nel male. Il tono distaccato di DeLillo, che andava benissimo in altri romanzi in cui il “cinismo” di fondo dava un colore particolare, qui produce personaggi freddi su uno sfondo freddo.
Un’uscita molto al di sotto delle aspettative, per quanto mi riguarda. I recensori ufficiali hanno gridato al capolavoro, e probabilmente hanno ragione loro che sono più esperti –o forse, ancora, guardiamo sempre il nome dell’autore prima di dare un giudizio sull’opera.
Per quanto mi riguarda, l’ho finito con grande sforzo, e una volta finito, mi è venuta voglia di rileggermi quel malloppone di “Underground” –tutto, ma non questo.
Sconsigliato (sorry, maestro).
Di questo autore ho recensito anche:
–Rumore Bianco.
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